Ma vorrei tanto sbagliarmi


 

Ma vorrei tanto sbagliarmi

La vera tragedia sarà per chi tra qualche tempo realizzerà che tra la generazione uscente -quella che si sta congedando dal teatrino delle leggi biologiche – e quelle entranti, che indugiano al centro del palcoscenico con la testa china sullo smartphone, non c’è mai stato il passaggio delle consegne. Lo scarto, sul terreno delle caratteristiche antropologiche, che di norma divideva i trisnonni dai nipoti, ma in modo quasi impercettibile ad occhio nudo, è comparso solo di recente all’improvviso sotto forma di una cesura netta, di due cose diverse, come di un libro che sia stato stampato per errore con le pagine prese da un altro. Insomma, non si può dire, usando una frase fatta, che i figli abbiano ripreso dai padri, sebbene si  tratti spesso di un’eventualità fortunata, ma il progresso tumultuoso della tecnica che è comunemente ritenuto responsabile di tale fenomeno, c’entra  solo di sguincio, posto, comunque, che l’apprendimento di un nuovo linguaggio per chi ne utilizza già uno (ad esempio, l’analogico in contrapposizione al digitale) è sempre  assai più problematico che nelle persone ‘vergini’, alle quali il nuovo non si prospetta come una sconfessione del vecchio e, quindi, per ciò stesso, come un irresistibile incentivo a sentirsi esse stesse superate e ‘vecchie’, la proverbiale conchiglia vuota abbandonata sulla sabbia dalla risacca del tempo.

C’entra, piuttosto, la fine del potere aggregante del monoscopio, dell’unico canale televisivo che inchiodava tutti intorno ad una tavola e li obbligava a scambiarsi dei punti di vista. C’entra la Scuola che provvedeva, dall’alto dell’autorità conferitole dallo Stato, ad erogare istruzione ed educazione per i minori, e che poi ha dato forfait quasi in concomitanza con la crisi della famiglia, provocata dall’ingerenza della TV, dall’esasperazione della dialettica tra i due generi divenuta conflitto, e dall’irruzione nell’ambito dei processi formativi di una serie di agenzie ‘improprie’, quali sono i media asserviti ai potentati economici, il cui unico scopo sembrava – e sembra –  essere quello di svellere dalle sue fondamenta la nostra società perché diventi un posto – con tanti quarti di bue appesi agli uncini, alla maniera di Bruegel – dove le sole azioni ammesse siano quella del comprare e del vendere, l’anticamera di Gomorra.

C’entra l’Europa, che qualcuno avrebbe voluto far nascere da Paesi che sono tutti mirabilmente diversi l’uno dall’altro: non come le distese sterminate dell’America del Nord che erano zero spaccato. Qui, la Storia si è stratificata in lungo ed in largo a tal punto che basta spostarsi di pochi chilometri per scoprire che i campanili sono così numerosi perché l’invidia – forza propulsiva di ogni avventura dello spirito e dell’ingegno – – nel sublimarsi, si è arrampicata sempre più in alto. Ora che questa Commissione Europea  – un’accolita di  lividi ragionieri con un manicotto nero all’altezza del gomito – insista nel voler imporre ai popoli del nostro continente delle leggi uguali per tutti, senza tener conto della peculiarità del loro metabolismo, è di per sé un inconveniente, reso ancora più grave  dal fatto che esse vengono propinate ai Governi dei singoli Paesi dell’U.E. da un branco di cravattari, anche quando appaiono viziate da un’inspiegabile crudeltà, come nel caso delle pressioni esercitate sull’Italia perché si lasci sommergere dalle invasioni barbariche o in quello, analogo, della dieta coi vermi, che viene solennemente decantata a Bruxelles, mentre si dice peste e corna del vino.

 Coerente con questo quadro, dal quale, sgrossato dai diversivi e dagli ammennicoli, emerge l’immarcescibile rapporto tra chi domina e chi è dominato, è, fra gli altri, il compito in classe redatto dalla Cartabia  sul tema del funzionamento della Giustizia: quello che le era stato richiesto da Draghi, nell’impostazione del Pnrr (un enne in più per  evitare l’onomatopea di una pernacchia) per spiegare in che modo il Governo italiano avrebbe ottemperato, agli ‘ukase’ dell’Unione Europea, e in che misura avrebbe fatto scempio della sua inveterata tradizione giuridica pur di abboccare all’esca avvelenata del MES. Detto e fatto: il problema delle lungaggini vi è stato disinvoltamente ‘risolto’ conferendo all’iter processuale il ritmo di un cortometraggio di Ridolini, e, ancor peggio, spostando in direzione delle vittime, anche di reati ritenuti ‘gravissimi’ come quelli di mafia, la responsabilità di ingolfare la macchina della giustizia, se si incaponiscono nel voler dare querela.

 Mai come adesso si è avuta l’impressione, non solo della perdita da parte del Paese di ogni residuo di sovranità, eccettuata quella che si è già ceduta agli americani  con la ‘Liberazione’ del ’43, ma della rinuncia da parte dello Stato alle proprie prerogative, che avviene però in sordina, a favore della dimensione privatistica delle relazioni sociali (che é l’habitat elettivo di tutti i  malvagi), una volta, lasciando che il cittadino inerme se la cavi da sé nel confronto con chi ne approfitta;  una volta, smantellando senza fare troppo rumore, la sanità pubblica – oberata, fra le altre cose, anche dal tormentone  dell’accoglienza a gogò – e, una volta ancora, andando avanti con la demolizione sistematica della Scuola che priva il Paese della possibilità di esprimere una classe dirigente che sia almeno di qualche spanna superiore ai rimbambiti e ai venduti che oggi seggono in Parlamento.

E’ difficile, con questo minestrone di disgrazie, sottrarsi al sospetto che dietro di esso non ci sia una regia, soprattutto ora che una locuzione apparentemente innocua, come ‘classe di efficienza energetica’, viene sempre più spesso adoperata dai boiardi di Bruxelles e dai loro  attendenti italiani per significare che i due terzi delle nostre abitazioni (compresi i trulli)  non possono soddisfare l’esigenza di contenere i consumi, nell’ambito dei programmi concepiti per fronteggiare il ‘riscaldamento globale’, e che, quindi, gli Italiani, proprietari di una casa, sono tenuti a mettere mano al portafoglio per adeguarsi. Si dà tuttavia il caso che la maggior parte dei connazionali che si sono fatti un tetto, ci sono riusciti con un mutuo che li ha costretti per diversi lustri a rimanere lontani da una pizza con gli amici il sabato sera o a rinunciare alle vacanze, e che hanno compiuto tali sacrifici pensando con soddisfazione ai propri figli che ne sarebbero stati dispensati. Il precedente della Grecia, ridotta in mutande al passaggio dei quattro cavalieri della Troika e obbligata a disfarsi di porti ed aeroporti per cederli ai suoi creditori internazionali, dovrebbe far suonare a stormo tutti i campanelli d’allarme, perché la crisi, iniziata più di dieci anni fa, nel ricadere sul patrimonio immobiliare delle famiglie, ne ha decretato il deprezzamento e ne ha favorito il saccheggio da parte delle grandi compagnie  finanziarie che vi si sono buttate sopra, in un festoso crepitio di artigli e di rostri,  simili ad avvoltoi.

Le preoccupazioni dei padri, reduci dai sussulti del ’68, si spengono per strada prima ancora di sfiorare il vissuto dei figli, molto probabilmente perché quelli della loro generazione, che é anche la mia, studiando Storia ( una materia confinata, non certo casualmente, in coda ai curricoli), si sono fatti un’idea, magari un po’ approssimativa, un po’ manierata, delle perversioni del potere, e alcuni di loro sono invecchiati nelle patrie galere nel tentare di contrastarlo, ma i libri di Storia sono spariti –  quando non sono stati scritti ad usum delphini – e al loro posto si sono materializzati (vuoi mettere?) il mago Otelma, la Ferragni, Mara Venier, le televisioni di Berlusconi+ tutto ciò che basta, e avanza, per spiegare come la ferocia, resa impotente nei padri dall’età avanzata, rimanga lettera morta nei figli, quelli che vogliono ma non possono e quelli che possono ma non vogliono. Un leggiadro giro di valzer tra due categorie di falliti: ma vorrei tanto sbagliarmi.                                          

 

Immagine: www.italiaoggi.it

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