Madre Teresa e il conto allo IOR
Posso dirlo? A me che Madre Teresa di Calcutta avesse un “megaconto” allo Ior, l’Istituto per le Opere di Religione, può solo fare piacere. Perché vuol dire che poteva aiutare migliaia di disperati, prima di tutto; e perché lo Ior stava facendo onore (almeno per una volta!) alla sua ragione sociale o missione se preferite: finanziare opere di religione.
«Nessuno si ricorderebbe oggi del buon Samaritano per quello che ha fatto: aveva anche dei soldi», disse Margaret Thatcher, che era figlia di un pastore protestante e che s’insediò a Downing Street parafrasando la Preghiera Semplice erroneamente attribuita a San Francesco. Non fa una piega: il Samaritano pagò l’albergo al tizio bastonato raccolto per strada. E non è che nella Palestina di allora i Samaritani fossero molto amati dal resto dei compatrioti. Anzi.
Insomma, il fatto che Madre Teresa avesse un sacco di soldi in banca vale un sano chissenefrega. La diretta interessata viveva in povertà coi suoi poveri; e i soldi le servivano come mezzo, non come fine. Perché se devi costruire un orfanotrofio in Africa servono soldi; per dare da mangiare ai bambini servono soldi; e così per pagare le bollette. Tanti soldi, se sei una congregazione diffusa in tutto il mondo come quella di Madre Teresa, con migliaia di aderenti, con un numero enorme di persone da aiutare. Dove tenerli? Allo Ior in Vaticano che te li fa fruttare perché esiste per questo scopo, o in qualche banca più o meno discussa o fallita fuori dalle Mura Leonine?
E andiamo avanti. I Legionari di Cristo, discussa congregazione cattolica con fondatore pedofilo e commissariamento della Santa Sede alle spalle, mettevano i soldi in un paradiso fiscale. Ma, come nell’intervista a ItaliaOggi del 10 novembre ha spiegato il numero due dell’Ocse, il direttore del centro di politica e amministrazione fiscale Pascal Saint-Amans, il paradiso nasce da lacune normative. Di chi è la colpa? Dei Legionari? E chi paga il personale che lavora per loro?
E che dire dell’Opus Dei, per la quale il successo imprenditoriale e sul lavoro sono benedizioni divine? Che ha ragione: se un devoto di Sant’Escrivà guadagna soldi a palate (ci sono anche quelli che non ne guadagnano a palate, comunque, e da quel che so sono la maggioranza calcolata) e ci paga le tasse sopra, può finanziare più opere di beneficenza di quante ne possa finanziare io. Se l’azienda rende bene può pagare meglio i dipendenti e migliorare la loro vita e quella delle loro famiglie. Si chiama bene comune, tema fondamentale della Dottrina Sociale della Chiesa. Già: anche i ricchi vanno in Paradiso, se coi loro soldi aiutano i poveri.
Scusate, ma le numerosissime opere di bene fatte anche a Roma, nel corso dei secoli, dai Pontefici, a favore dei poveri, dei miserabili e degli ultimi, secondo voi come sono state fatte? E sapete chi dà i soldi ai Papi? Lo Ior, che fa fruttare i soldi che ha in deposito e gli passa fondi per la carità del Papa. E se gli impiegati vaticani ricevono uno stipendio, sapete chi glielo paga? l’Apsa, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Che gestisce il patrimonio immobiliare e i soldi che la Santa Sede ha facendoli fruttare.
Guardando tali fatti sotto la lente politica, non possiamo non constatare come queste opere di bene comune sociale siano, in un certo senso, un para-welfare state, per prendere in prestito un inglesismo tanto di moda nel mondo dell’ economia. Dove lo Stato, per una lunghissima serie di motivi più o meno validi, non è arrivato e/o ancora oggi non può arrivare a fare quanto necessario per garantire la sopravvivenza e il bene (non mi piace molto la parola “benessere”) dei suoi cittadini, ecco che la Chiesa Cattolica, da sempre, coadiuva e talvolta supplisce tali falle del sistema previdenziale. Tranquilli, nessuna rivendicazione, nessuna gara da vincere. Qui si lotta per il bene di tutto, per il popolo, per la Nazione.
La Chiesa, e così anche lo Stato, non si manda avanti solo dicendo le Ave Maria, ma anche facendo, concretamente.
[Per il più critici, prometto presto un articolo contro la “banca vaticana”]