Matteotti nel paese delle scimmie

Di Franco Scalzo

Eccola la sagoma di Matteotti: la si scorge da lontano mentre avanza dondolando al di sopra di un baldacchino, ma non si odono le risonanze marziali che accompagnano la marcia del ‘Tercio’, a Malaga, in prossimità della Pasqua, e fai fatica anche a trovare da qualche parte un venditore ambulante  di palloncini rossi, di quelli che compaiono sempre agli incroci quando c’è di mezzo il Santo Patrono. 

Mentre mi accingo – mio malgrado, per tutte le volte che mi ritrovo, da solo, a dire cose diverse da quelle autorizzate dalla ‘Vulgata’ –  a commentare il centesimo anniversario della morte di Matteotti (certamente, accanto al delitto Moro, il più complicato ma anche il più banale di tutti gli episodi di banditismo politico che hanno insozzato  questo Paese), realizzo che esistono due mainstream, uno di finta Sinistra, e l’altro di finta Destra, che, senza averci mai capito un cazzo (ho ripreso da Zavattini!), ne parlano e ci costruiscono sopra soffitte e soppalchi, lavorando di fantasia, perché sembra che per l’interpretazione e per la divulgazione dei fatti storici non sussista l’abusivismo.    

Il prologo, al riguardo, di qualsiasi narrazione sarebbe quello di ricordare che Matteotti, il ‘socialfascista’, era detestato dalla Sinistra radicale forse più di quanto  lo amava il signor Mussolini che lo avrebbe voluto partner di Governo immediatamente dopo le prime elezioni tenutesi all’indomani della marcia su Roma, nonostante il loro responso fosse stato la vittoria con largo margine della coalizione creatasi intorno al PNF: un coacervo di partiti messo su in tutta fretta, al quale il collante dell’anticomunismo non sarebbe bastato per sottrarsi al rischio di disgregarsi al primo colpo di vento, e fu così, infatti, che avvenne come attesto’ il duce davanti alla bara di Bonservizi, il delegato del Fascio a Parigi, assassinato nel febbraio del ‘24 da un ‘anarchico’, ma su istigazione di Dumini e di Suckert, al quale ultimo – recalcitrante – proprio il duce aveva affidato l’incarico di sondare attraverso Alceste De Ambris la disponibilità del  PSU e, quindi, dello stesso Matteotti, a condividere le spese per l’affitto di palazzo Chigi.

‘Nicola è morto….’, disse Mussolini,  ‘perché ci siamo messi a litigare tra di noi’. 

Non avrebbe potuto essere più esplicito, a meno che non avesse voluto disfarsi su due piedi di baracca e burattini e ritirarsi a vita privata.

Ma i segnali, provenienti dalle direzioni più disparate, erano inequivocabili.

Il PNF era sull’orlo del fallimento, diviso tra l’impostazione statalista del duce (che pure faceva ammenda del periodo, molto vicino al 28 ottobre di due anni prima, nel corso del quale malediceva lo Stato ferroviere e postino che s’insinuava come il borotalco in ogni interstizio della società civile) e quella liberista di una moltitudine di soggetti, molti dei quali – come disse Vaussard, la prima firma de ‘Le Figaro’ – erano a contatto di gomito con Mussolini (è il caso di Cesare Rossi, di Aldo Finzi, di Emilio De Bono) e mordevano il freno puntando ad ottenere sia per sé che per le loro clientele tutti i vantaggi economici che si associavano alla conquista del potere. 

Provo un’immensa pietà, mista a rabbia (quella che proverebbe al mio posto chiunque fosse stato,  in tutti questi anni, privato dalla mafia editoriale e mediatica della possibilità di disporre di uno spazio più accogliente di un minuscolo strapuntino) per tutti coloro che continuano a collezionare marchette, chi, essendosi avvalso di documenti che gli sono stati procacciati da altri, molto più esperti di lui, per arrivare alla mastodontica conclusione che, no, la squadraccia capitanata da Dumini non voleva uccidere Matteotti, ma limitarsi a fargli la ‘bua’ (con grande sollievo degli ambienti legati al Mainstream di destra per i quali, si, il fascismo fu ‘il male assoluto’, ma fu ‘relativo’ in relazione al caso Matteotti), e chi, insistendo, invece, come Canali e Scurati, nel sostenere che ci fu premeditazione: il primo, senza tener conto del fatto che in un caso come nell’altro, sarebbe stato realizzato, se non l’obiettivo –  appena sfiorato- di far cadere Mussolini, almeno quello di scongiurare il compromesso storico del ’24, che ebbe, sul piano teorico,  una replica riveduta e corretta quasi vent’anni dopo a Salò; i secondi, nel battere, con la meccanica fissità delle scimmie, sul tasto della responsabilita’ del duce, senza, peraltro, chiedersi se tale ipotesi – contrabbandata per certezza – fosse compatibile con la sua statura politica e lo fosse inoltre col suo interesse a non compiere passi falsi dopo che le urne ne avevano sancito il diritto a prendersi una poltrona, di quelle molto larghe (quasi un letto da triclinio), a palazzo Chigi.

L’ottusa spregiudicatezza con cui, spalleggiati dai grossi calibri dell’industria mediatica, questi valletti del Sistema, mascherati da storici e da scrittori, compiono l’atto sacrilego di ridurre la storiografia a propaganda, riverbera su quasi ogni aspetto dell’affare Matteotti, irradiandosi dal presupposto, del tutto arbitrario, che quello fascista fosse nel ’24 (ammesso, per comodità, che lo fosse stato anche successivamente) un partito ‘duro e puro’, una specie di monolite nero, come quello, per l’appunto, intorno al quale danzavano, inebetite e festose,  le scimmie (sempre loro!) di un famoso film di Stanley Kubrick.

La cosa fa evidentemente piacere a coloro che, a Destra, non sanno vivere senza rimanere abbarbicati ad un totem, ma è anche congeniale al Mainstream di sinistra che per questa via, facendo incetta di dati falsi e rinunciando a cercare la verità – come direbbe Hermann Hesse – per la paura di trovarla, può vivere di rendita su quella assiomatica del fascismo cattivo e dell’indole criminale di Mussolini.

Diversamente, certe cattedre salterebbero, e non ci sarebbero più dalle parti della RAI mani protese nell’atto di chiedere l’obolo, perché, allora, sarebbe inevitabile chiamare a contradditorio (a proposito, ecco il mio biglietto da visita: sono però sprovvisto di guanti) quel Franco Scalzo lì che nel lontano 1985 scrisse un libello (si, Canali, un libello, per un capriccio dell’editore) nel vano tentativo di cancellare la stupida barzelletta dei brogli che ancora ricorre nei libri di scuola, finanche al livello del liceo, e che ha poi perseverato – facendo ampio uso di documenti, molti dei quali inediti, e con un po’ di cervello – nella marcia di avvicinamento ad una sceneggiatura del delitto Matteotti che fosse almeno verosimile se non potesse essere, in alcuni dettagli, per mancanza di pezze d’appoggio, perfettamente conforme al vero.

Nell’eventualità, dunque, che qualcuno si faccia vivo per invitarmi a scambiare con lui quattro chiacchiere intorno ad un caffè o, magari, per sfidarmi a singolar tenzone davanti ad un pubblico intelligente (ma ciò può accadere solo quando si siano riscattati dai luoghi comuni della ‘Vulgata’ e abbiano dimostrato di essersi immersi per almeno un paio di anni, con una determinazione alfieriana, nella profondità degli archivi) comincio a segnare il terreno fissando alcune questioni.

Una, ad esempio, riguarda Dumini. Quegli che era andato in Francia con la manifesta intenzione di indagare sulle violenze perpetrate ai danni dei fascisti, e ne era tornato con l’intenzione di far sapere a tutti che esse erano state ispirate da Matteotti, non già dalla diaspora comunista che dilagava oltralpe: il tentativo maldestro di fornire una legittimazione preventiva all’aggressione che il deputato socialista avrebbe poi subito il 10 giugno del ’24 con la scusa -puerile – che aveva osato sollevare dubbi sulla regolarità della recente consultazione elettorale , ma anche il sospetto – da dissipare o da confermare previa acquisizione di fonti attendibili – che egli facesse il doppio gioco ai danni del capo del Governo avvalendosi, magari, del sostegno, per il tramite del faccendiere Pippo Naldi, della Corona che non gradiva il passaggio a Nord-Ovest coi socialisti vagheggiato da Mussolini, o dei Servizi inglesi che avevano maldigerito la convenzione Sinclair siglata dal Governo per tagliare la strada ai petrolieri dell’’Anglo Persian’, progenitrice della ‘Shell’. 

Un’altra questione è ancora pendente su quella strana figura coi calzoni corti, alla tirolese – Otto Thierschald-  di cui si sa poco, tranne  che attraversò di corsa la scena del crimine dopo essersi mischiato, nelle bettole della suburra, con quanti inneggiavano alla Rivoluzione d’Ottobre e storpiavano, con un facile gioco di parole, il nome dei militanti del PSU, il partito di Matteotti, chiamandoli p.suini (il doppione, cioè, della lettera di raccomandazione che Dumini aveva ottenuto dal leader comunista Giacinto Menotti Serrati per trovare lavoro, a Parigi,  presso l’organo ufficiale del PNF, ‘’l’Humanité’)   e prima ancora che se ne trovasse – all’indomani di un lungo periodo di silenzio e di nebbia – una labile traccia sui brogliacci della polizia di frontiera nei quali era segnalato per l’arresto come provocatore e spia.

C’è ormai, a far data dal 1985, una copiosa letteratura su questo caso, prodotta  però da chi purtroppo non sa coniugare, con un istantaneo processo di sintesi, l’analisi del dettaglio, dal quale finisce per essere imprigionato, con una visione grandangolare degli eventi illuminata da domande semplici su chi ha tratto profitto da una determinata situazione e chi, al contrario, ne  può aver pagato le conseguenze. 

Insomma, un utile compromesso tra le proprietà del microscopio e  quelle del cannocchiale, che forse riduce a due soli paragrafi tutto il tempo e tutte le pagine (qualche centinaio) sprecate per dimostrare che Matteotti è morto per sbaglio, ma che conferisce il giusto risalto a questioni enormemente più importanti, come quella che ho ripetutamente sollevato per stabilire chi avesse interesse a far sparire il dossier sul delitto Matteotti che Mussolini portava con sé in occasione del suo arresto a Dongo, o se gente come  Carlo Silvestri  non avesse fatto meglio – nel proprio- a sostenere, nel ’47, la colpevolezza del duce che le era parsa evidente quando lavorava per il Corriere della Sera, nel ’24: posto, comunque, che, anche nel mettere piede sul piano sdrucciolevole dell’osservazione psicologica, proprio non si capisce perché mai il ‘feroce’ dittatore che si adoperò di persona per sottrarre Nenni e Buozzi alle grinfie della Gestapo, si sarebbe dovuto macchiare, invece, le mani col sangue dell’uomo con cui progettava di cambiare la storia non solo del PNF, ma addirittura del Paese.

Ad ogni buon conto, nessuno potrà fermare la macchina delle celebrazioni già da tempo allestita in memoria di Matteotti, benché gli abbiano cucito addosso un copione inventato di sana pianta:  non solo dagli inservienti del Sistema che si si sono già prenotati per salire sul pulpito, ma anche dal Sistema medesimo al quale lo strapotere del Mercato ha ormai sottratto la capacità di fare politica e che deve per di più difendersi dal sospetto che rubare le boccette di profumo al free – shop o lucrare sulle illusioni dei migranti siano solo le avvisaglie di un male divenuto incurabile.    

 
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