Melilla


 

Melilla

Il territorio spagnolo di Melilla (insieme all’exclave di Ceuta) è la porta d’ingresso dell’Europa in Africa. Girevole, perché consente il passaggio solo in direzione sud ed interdice quello al contrario: reti di filo spinato alte più di cinque metri, torri di guardia, l’ordine di sparare sulle torme ululanti che ogni tanto cercano di esondare dall’altra parte. Qui, alcuni giorni fa ci sono stati una quarantina di morti, e il premier spagnolo, il socialista Pedro Sanchez, ha giustificato la carneficina con la necessità di salvaguardare l’integrità del proprio Paese: proprio come da noi, dove una nonnetta raggrinzita assiste dal suo seggiolone al Viminale, muovendo gioiosamente i piedi, all’invasione della Sicilia e a tutti gli inconvenienti che ne derivano dichiarando che se essi si aggravano sarà costretta a studiare con questo Governo di invertebrati e di sprovveduti come migliorare la ricettività degli hot spot. La soluzione del problema sarebbe dunque quella di esasperarlo per vedere, emulando Jannacci, l’effetto che fa. Eppure i confini sono la pelle di una nazione, che se si scuce, mettendo allo scoperto le interiora e gli organi più importanti, diventa facile pastura per ogni tipo di malattia. L’assenza di misure politicamente e tecnicamente impapocchiate nella gestione delle orde  provenienti dall’Africa, da parte del Palazzo della Moncloa, rende per altro del tutto evidente l’assenza in Italia di qualcosa che richiami alla mente Melilla in molti affari, sociali, politici ed economici, che, privati della  dimensione del limite, finiscono per scivolare nella plaga oscura dell’anarchia, l’ultimo stadio di un processo il cui step ulteriore sarà la profilazione di massa, una minuscola scheda infilata nel braccio, una distesa di pupazzi, la dittatura perfetta.

 Non c’è infatti niente che impedisca al sig. Briatore di reclamizzare la propria pizza (65 euro) guarnita con delle fette trasparenti di patanegra, nonostante  divampi la disoccupazione e la gente boccheggi, presa di mira da tre flagelli paralleli, da un lato i salari più bassi, dall’altro, le tasse più esose dell’Occidente, e dall’altro, ancora, l’aumento delle tariffe, la fine di Lacoonte, coi sindacati, che una volta spadroneggiavano a rimorchio del potere politico, insinuandosi, come l’umidità, in ogni minimo recesso della piramide sociale, e oggi danno chiara dimostrazione, piacevolmente compresi nella rete dispiegata dal turbocapitalismo, di come si possa fingere di essere morti nonostante si sia ancora vivi o, viceversa, di essere vivi pur essendo già morti.

Non c’è alcuna palina, un cippo confinario, che dica, qui in Italia, fin dove ci si può allargare senza incorrere nella reazione dello Stato e nella profanazione del Diritto, sicché, se ti dichiari ‘ambientalista’, benché non abbia la più pallida idea di cosa significhi  la parola ‘ambiente’, puoi permetterti il lusso – regolarmente negato ai lavoratori che manifestano per  essere stati gettati sul lastrico, ai quali si riservano manganellate sui denti – di bloccare per cinque volte di seguito l’Anulare di Roma, che è come comprimere con una tenaglia la giugulare di una persona, con la magistratura che lascia fare e coi poliziotti che ti pregano, a mani giunte, di desistere: perché la transizione ecologica, che costa molto di più e crea molti più danni di quanti ce ne procuri l’attuale sistema industriale (alla faccia della Gretina), è stata classificata tra le cause nobili, ed è dunque doveroso renderle omaggio, più o meno come si fa  col ‘Black  Lives Matter’ di cui i calciatori inglesi, e anche quelli italiani, non sanno nulla (non so, boh, mi dicono che debbo fare così…), sebbene si mettano immancabilmente in ginocchio quando vanno in nazionale, all’inizio di ogni partita.

Non c’è un’invalicabile linea rossa, il graticcio alto oltre cinque metri dell’exclave di Melilla, che separi lo Stato inefficiente, lo Stato fallito, dalla pletora puntiforme dei soggetti che cospirano, talora senza alcuna premeditazione (il che, per certi versi, è anche peggio), nel demolirlo. I due, tre idioti che sono stati visti e fotografati su di un vagone della metropolitana milanese mentre si fanno di cocaina – la sostanza bianca adagiata su di un sedile lasciato vuoto – hanno semplicemente occupato lo spazio che gli è stato concesso dallo Stato che batte in ritirata, le insegne e i carriaggi abbandonati lungo la strada che parte da Caporetto. Così dove i clandestini, arrivati in frotte da contrade lontane, si riuniscono per deliberare in dei silenziosi conciliaboli, su come far trascorrere meglio il tempo, se spacciando droga o tenendo agguati alle donne che si trovano a passare da sole da quelle parti. Così, persino a scuola, dove la soppressione, decretata per legge, del sacrificio e dell’impegno per cercare di ottenere dei buoni voti, nel combinarsi con quella della leva obbligatoria, si sono strutturate, calcolando all’ingrosso, almeno cinque o sei generazioni per le quali è imprescindibile l’apericena,  col crodino e le noccioline tostate, ma che non dispongono degli strumenti che gli servirebbero per cercare di capire da dove vengono e dove sono diretti: beati e molli come turaccioli di sughero in mezzo al mare.

Ora, che si debba, per qualunque soggetto – collettivo, come le nazioni, o come un partito –  avvertire il bisogno di programmare l’uscita da questo stallo, sembrerebbe  quasi scontato, se non fosse per il fatto che, nel ritrarsi, tale e quale ad una maglia di lana   trattata col lavaggio sbagliato, e nel virare, con un poderoso testa-coda, verso la propria dissoluzione (non accidentalmente, favorita dalla copula simultanea dei tre poteri e dalla sempre minore credibilità che esso può mettere sul tavolo delle relazioni internazionali), lo Stato –  o per meglio dire, ciò che ancora ne rimane, fatta esclusione per l’agenzia delle Entrate e per l’autovelox che ti sorprende alle spalle – ha sollecitato a dismisura la vocazione privatistica dei partiti, i quali, dopo avere staccato la spina dal Territorio ed essersi liberati del ‘peso’ delle sezioni, si sono trasformati in bande , ciascuno  col proprio punto di riferimento nel firmamento delle ‘companies’,  ma senza più alcun rapporto con le classi sociali, di cui disconoscono  la geografia, e senza più alcuna base, perché sono solo vertice e fattorini.

Dato che da questo fango non ci si tirerà fuori , come il barone di Munchausen,  prendendoci per i capelli  (ad avercene…), un soggetto politico che volesse ribaltare la situazione non avrà che da combattere per far tornare di moda una passabile normalità, erigendo muri alti oltre cinque metri, come a Melilla, per ricacciare indietro i ‘diritti civili’, che hanno messo al posto di quelli sociali, sacrificati al Mercato; per riaffermare il valore della casa, del lavoro, della famiglia, dell’istruzione e della salute, quali unici salvacondotti validi per chiunque tenti di fuggire dalla replica stonata del Medioevo. Ma guai ad accettare le regole dettate dal Banco: sono state concepite – propaganda subliminale, imboscate legali, il vortice dei dervisci – per farti perdere tutto. Occorre ricominciare da tante piccole Melilla e dal ripristino della piazza, che non è quella, spettrale, di De Chirico, e neppure quella dove ruttano, gonfi di birra, la sera. Bye. 

 

Immagine: https://www.ispionline.it/

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