ORIZZONTI (S)PERDUTI: Roger Nimier, l’ultimo degli ussari
Tornano sempre alla mente le parole del poeta greco Menandro quando chi, ancora giovane, si vede improvvisamente privare la vita, e che recitano testualmente “muor giovane chi agli dèi è caro”. Parole che si adatterebbero idealmente a tanti giovani che avevano ancora tanto da vivere, fare e dare. E uno di questi giovani, degno di stare per davvero al fianco degli dèi, è stato uno dei maggiori e misconosciuti (almeno nella nostra Italietta illetterata) scrittori francesi del Novecento, Roger Nimier, spirito ribelle, perennemente à rebours, che ha amato talmente la vita da invocarla con la morte e che ha trovato la signora con la falce ad attenderlo la mattina del 28 settembre 1962, sull’autostrada dell’Ovest nei sobborghi di Parigi, quando a velocità folle si schiantò con la sua Aston Martin DB4, insieme con la sua ultima amante, la scrittrice Sunsiaré de Larcône. Lui aveva trentasei anni, lei soli ventisette.
Una morte cercata la sua? Forse, ma solo chi osa e mette a repentaglio la propria vita ha poi il diritto di rivendicare l’amore e la passione di vivere. E Roger Nimier fu capace di vivere intensamente i suoi trentasei anni, scrivendo, correndo con le sue automobili fuoriserie (possedeva anche una Jaguar e una Delahaye), amando ed essendo amato da diverse donne, a cominciare dalla moglie Nadine Raoul-Duval, prodigandosi, all’indomani del secondo conflitto mondiale, a risollevare le sorti di quella cultura letteraria francese che non si era voluta prostituire, concedendosi alle lusinghe e alle sirene dell’esistenzialismo di Sartre prima ancora che a quello di Camus, al punto che molti videro in lui un secondo Pierre Drieu La Rochelle (perfidamente alcuni giunsero ad affermare che in fondo il suo modo di vivere e di scrivere non era altro che uno scimmiottare l’autore di Gilles e Fuoco fatuo).
Resta il fatto che Roger Nimier ha saputo incarnare il prototipo di intellettuale che eleva il suo andare controcorrente non per essere un semplice bastian contrario, offrendo agli occhi e alle menti altrui uno sterile modo di essere pour épater le bourgeois, ma per rappresentare un modo diverso di lottare, di non abbassare la guardia, dimostrando, come fece Roger Brasillach, che si può combattere anche con la penna, usata con il sangue dell’inchiostro. E di inchiostro insanguinato Nimier ne usò tanto, e non solo per scrivere i suoi romanzi (la maggior parte dei quali non sono mai stati tradotti per via di un conformismo sclerotizzante che contraddistingue una cultura egemone allergica da ciò che appare “non conforme”), a cominciare dall’esordio letterario con Les Épées (Le spade) che fin dal titolo ci fa comprendere come lo scrittore parigino sia sempre stato attratto da uno stile di vita militare austero, spartano nei modi e nelle attitudini, severo nelle indulgenze della quotidianità, uno stile ribadito poi in quello che è il suo capolavoro, con Les enfants tristes (Giovani tristi), vale dire Le Hussard bleu (L’ussaro blu), che rimanda idealmente a una concezione cavalleresca, aristocratica della guerra (sul finire della Seconda guerra mondiale Nimier venne proprio arruolato nel secondo reggimento degli Ussari, anche se non fece in tempo ad avere il battesimo di fuoco), titolo dal quale prese spunto il cosiddetto “gruppo degli Ussari”, anche se tale gruppo più che altro è frutto dell’immaginazione del critico Bernard Frank, e di cui fecero parte intellettuali e scrittori riconducibili all’arcipelago dell’anarchismo di destra francese, come Antoine Blondin, Jacques Laurent e Michel Déon. Gruppo che fu tacciato anche di “fascismo”, epiteto che non venne mai smentito dai diretti interessati.
Reazionario, nemico dichiarato della modernità, bonapartista, Nimier, dopo aver raggiunto il successo letterario con sei romanzi e un saggio, Amour et néant (Amore e nulla), che vuole essere una risposta al celeberrimo L’Être et le Néant (Essere e Nulla), manifesto dell’esistenzialismo sartriano, a metà degli anni Cinquanta, a soli ventotto anni, decise di mettere da parte la vena narrativa per dedicarsi ad altre battaglie, a cominciare dalla critica, in particolare sulla rivista Opéra di cui fu direttore, e dalla politica, scrivendo editoriali e articoli sul settimanale monarchico La Nation Française, fino a coltivare attivamente la sua grande passione per il cinema (altro amore condiviso con Roger Brasillach), collaborando con Louis Malle, per il quale scrisse la sceneggiatura di quel capolavoro che porta il titolo di Ascensore per il patibolo.
Politicamente, Nimier non nascose mai la sua ammirazione nei confronti di Charles Maurras e dell’Action française, anche se poi nel corso del tempo stemperò tali simpatie in un anarchismo di destra che rappresentò un andare oltre le posizioni degli scrittori che avevano fatto parte del collaborazionismo francese, ma che non gli impedì di firmare nel 1960 il “Manifesto degli intellettuali francesi”, risposta dei letterati conservatori al “Manifesto dei 121”, firmato dagli intellettuali di sinistra che chiedevano l’indipendenza dell’Algeria.
Se volete leggere quei pochi romanzi che sono stati tradotti in italiano, dovrete forzatamente cercarli nei mercatini dei libri usati poiché tranne Le spade (tradotto nel 2002) e L’ussaro blu (uscito lo scorso anno per la casa editrice Theoria), gli altri tre, Storia di un amore, Giovani tristi e D’Artagnan innamorato, sono stati presentati al pubblico italiano nella prima metà degli anni Sessanta e da allora mai più ristampati. Scoprirete così un autore raffinato, melanconico come possono esserlo le fotografie di Parigi in bianco e nero degli anni Cinquanta, che sanno di fumo e di pastis, disincantato come può esserlo un ussaro sceso dal suo cavallo.
Poco prima di uscire di strada e di schiantarsi nei pressi di Garches, quel maledetto mattino di settembre del 1962, Louis Malle lo aveva convinto a scrivere la sceneggiatura di Fuoco fatuo di Drieu La Rochelle. Ma Roger Nimier non fece in tempo neppure ad iniziarla, poiché ormai gli dèi avevano deciso di volerlo con loro. La vita era in credito con lui e gli presentò il conto in una sola volta, costringendo l’ultimo degli ussari ad andare incontro alla morte non durante una carica di cavalleria, ma a bordo di mostro a quattro ruote da duecentocinquanta cavalli. Paradossi della modernità.