Prisencolinensinainciusol – atto primo
Certi scatti sono come il cromosoma di un’epoca, di un personaggio, di un fatto. Senza la morte del miliziano, rimasta intrappolata nell’obiettivo di Capa, la guerra civile spagnola non sarebbe mai uscita dal solco delle rievocazioni storiche e non avrebbe mai conquistato la purezza del logo, come avrebbe fatto, molti anni più avanti, la bambina che va, disperata, incontro al fotografo, su di una strada polverosa del Vietnam, con il napalm che rotola alle sue spalle.
Il logo – esplicativo, limpido, fulminante – é la forma dell’uomo che continua a ripararsi dai lapilli scagliati intorno a sé dal Vesuvio nel 79 d.C.. E’ la mosca sepolta nell’ambra. E’ quel corpo di donna che si era fatto vetro, zucchero e acqua sporca, prendendo il nome di Coca Cola, per attrarre le persone assetate, e in certi casi, per fargli venire la sete.
Il fermo-immagine ha una potenza evocativa enormente più grande di quella erogata dalle immagini in movimento. Ed é per questa ragione che chiederò a qualcuno che ci capisce più di me, che non ci capisco niente, di estrapolare da un filmato delle ‘Iene’ la scena in cui il leader maximo della CGIL, Maurizio Landini, braccato da un segugio della nota trasmissione televisiva, fa i gradini due a due su per le scale della Direzione Nazionale: tutto questo per non voler rispondere alla domanda se sia giusto, o no, che un insegnante o un operaio distaccato nel sindacato debba prendere, per una legge fatta a cacchio, quasi il doppio della pensione spettante al suo omologo rimasto inchiodato per tutta la vita al posto di lavoro.
Non so se in Italia ci sia qualcosa di analogo al premio Pulitzer: Se ci fosse, sarebbe il caso di considerare questa istantanea, perché coglie l’attimo fuggente, quello definitivo, di una mutazione radicale, il punto esatto in cui si adempie non la storia di Landini, ma quella di tutto il sindacato confederale, e ne comincia un’altra che le si contrappone, come l’indice al mignolo nel segno delle corna, il numero uno degli sberleffi.
Dato che il tempo fissa l’apertura e la chiusura dei cicli con dei fotogrammi, che hanno, fra l’altro, una forte valenza didascalica, l’album di famiglia della CGIL propone tre Landini diversi. Il primo irrompe dentro casa, dal televisore acceso, circonfuso di rabbia come il leone della Metro Goldwyn Mayer. Il secondo, glabro come un putto, pettinato bene, l’espressione appagata di un bertoldino qualunque, si fa sorprendere ed incartare dal flash mentre manda giù una tartina al caviale durante l’ultima sessione degli Stati Generali, la seconda a far data dal lontano 1789: manca il ciambellano che annuncia gli ospiti battendo il lungo bastone sul pavimento, e manca anche l’orchestrina per gli amanti del minuetto, il resto però é tutto tale e quale. Il terzo Landini fugge. Come un ladro. Come una preda. Come uno che é arrivato dove voleva arrivare e non abbia alcuna voglia di sottilizzare né sulla caratura delle sue scelte né su quella dell’ambiente che lo circonda: hic manebimus optime, oppure Napoleone nel duomo di Milano il 26 maggio 1805. Oppure Landini: quando, appunto, la Storia, nell’adattarsi agli uomini che la interpretano, assume le caratteristiche del bonzai.
Il foglio matricolare del sindacato confederale é ovviamente molto piu spazioso di quello intestato a Landini e si articola in più periodi, dai quali – dovendo tenermi stretto – ne estrapolo un paio. Uno é quello degli anni ’70. Acromegalico. Obeso. Invadente. Ebbe allora la sua massima estensione giacché comincio’ ad occuparsi di materie, come l’aborto, il divorzio, i diritti civili, che di solito appartenevano al repertorio dei partiti politici di sinistra, e nel farlo si sentì in qualche modo autorizzato a tralasciare quelli sociali, per i quali era sorto nell’Ottocento.
Un fulgore straordinario, come quello di una stella nana che esploda per poi collassare su se stessa, sotto il peso della propria forza gravitazionale, la vocazione del buco nero che prende tutto in cambio di niente. La metamorfosi non é stata graduale, a volerla misurare – come dicevo – col metro di due o tre generazioni, al massimo. Il sindacato confederale si é appiattito come una remora sul dorso del vecchio partito comunista e si é fatto portare a spasso da lui a mano a mano che esso si distaccava dal mondo del lavoro per entrare a far parte del cenacolo delle elite. Abbandonata la categoria degli operai al proprio destino, la CGIL ha infiltrato il pubblico impiego – il principale sbocco occupazionale del ceto medio – per renderlo sempre meno appetibile, in sintonia con le intemerate imbastite da D’Alema e company contro il posto fisso: più sassi che olio negli ingranaggi della pubblica amministrazione, perché si accettasse l’idea che uno Stato con poco Stato, e senza lo Stato, fosse una panacea per tutti i mali possibili, l’evoluzione del genere umano all’ultimo stadio.
Molte cose sono cambiate, un pò alla volta, e un po’ all’improvviso, dalla fine degli anni ’70. I lavoratori, quelli col cappelluccio fatto di carta di giornale, sono stati soppiantati, sotto il palco del Primo Maggio, dai disoccupati che ruttano birra, e Giorgio Benvenuto ora é un complesso hip hop che secerne rumore. Se chiedi ad uno di loro cosa sia il sindacato non sanno cosa rispondere, ma se chiedi a qualcuno del sindacato – intendo, quello confederale – cosa sia un lavoratore, é molto facile che cambi discorso, che debba pensarci sopra.
Pari e patta. In mezzo, tra i due soggetti che si disconoscono a vicenda, tante parole di cui si é perso il significato o non l’hanno ancora trovato. Come prisencolinensinainciusol.