Il lato buono di una disfatta – Zama scaturì da Canne – é che ti offre tanta materia per meditare su come evitarne un’altra, per capire chi ne sia il responsabile, su quali fattori si siano combinati nel provocarla.
Il 19 per cento del referendum é già da giorni sotto la lente del microscopio. Forse sono stati i media, normalmente così fragorosi anche in presenza di eventi insignificanti (come il matrimonio tra due emeriti pirla), che hanno fatto forfait. Forse é il presidente della Repubblica che ha detto di ‘no’ con la sua potente mimica facciale e coi suoi messaggi subliminali. Forse é stato quell’altro lì, l’emulo di De Amicis, quello che va a tutte le fiere di paese dove si mangia a scrocco, il quale ha realizzato solo all’ultimo momento di aver sponsorizzato a suo tempo il referendum sulla Giustizia (dicono, a dispetto della casta togata per tutti i torti ricevuti): ma c’era la guerra tra Ucraina e Russia da far cessare con una pericolosa missione alla corte di Putin (ah Vladimi’, ma che stai a scherza?), ed é dunque comprensibile che, assorbito completamente da questo impegno, seguito con trepidazione da tutte le cancellerie più importanti del mondo, se ne fosse dimenticato.
La verità, purtroppo, é un’altra, anzi sono altre. Intanto, va detto che l’istituto del referendum – per attivare il quale occorre comunque compiere un percorso di guerra, disegnato da esperti che ti vogliono morto al traguardo – non é lo strumento elettivo della democrazia diretta (che può funzionare nelle piccole comunità, come quella, ad esempio, degli ammutinati del Bounty, costretti in una piccola isola dell’oceano, ma non é neppure pensabile per una società variegata e complessa come la nostra), bensì un’esplicita sconfessione della democrazia parlamentare, nel cui ambito chi viene fatto deputato e senatore é presuntivamente dotato della capacità di prendere ogni volta le decisioni più giuste per la collettività, ed é agli antipodi dal sospetto di passare tutto il suo tempo dietro i banchi a messaggiare con l’amante.
Lo sfrigolio, da corto circuito, del potere giudiziario che collude con quello politico ed é spesso in grado di intimidirlo – come raccontano gli Annales scritti da Palamara all’indomani della sua radiazione dalla magistratura – costituiscono un vulnus irrecuperabile per questo regime, alla cui devoluzione verso una sostanziale dittatura contribuisce, oltre al potere illimitato dei giudici (per i quali, infatti, non ha applicazione l’art. 28 della Costituzione, che associa ad ogni funzionario l’obbligo di rifondere il danno ingiustamente procurato a terzi nel corso del suo operato), anche l’uso ‘politicamente corretto’ dei media, monopolizzati dai padroni delle ferriere, che disinformano trasformando gli italiani in spettatori tonti del teatro dei burattini. Di un certo Alberto Manzi, vi sovviene? Esattamente il contrario, l’analfabetismo di ritorno che da erosione periferica é diventata tsunami.
Ora, che le Opposizioni facciano finta di dolersi del flop e che tutti gli uomini del Presidente facciano finta di rallegrarsene, é cosa abbastanza singolare, ancorche’ abbondantemente scontata, dal momento che i cinque quesiti referendari, finiti malamente in una domenica piena di disinteresse, di ombrelloni e di sabbia, erano il contorno del piatto forte, cioé della questione se i signori giudici, nel sottrarsi all’obbligo di rispondere dei propri errori, possano continuare ad agire come se la legge sia uguale per tutti, ma non per loro. Non c’é sorpresa. A gennaio, la Corte Costituzionale presieduta dal dottor sottile, quello con gli occhialini appoggiati sulla punta del naso e col musetto che ricorda i topolini furbi delle favole di Perrault, si era pronunciato al riguardo con una formidabile supercazzola, che, di fatto, rimpallava sui politici, quindi sul Parlamento dei peones che non contano nulla, il compito di risolvere il problema, cioé di uscire dall’incantesimo, tutto italiano e italiota, in cui almeno due dei tre poteri individuati dal Montesquieu (roba ormai vecchia, sono passati quasi trecento anni), piuttosto che essere indipendenti l’uno dall’altro si fronteggiano e inciuciano sotto banco, una variante molto più pericolosa degli attacchi sferrati alla luce del sole contro l’ordinamento dei pubblici poteri da parte dei carri armati nel secolo scorso.
Non é un caso che Giuliano Amato abbia bocciato la consultazione sulla responsabilità civile dei magistrati. Con un meccanismo ad orologeria, che non sgarra il secondo, Mattarella, nel preparare – sempre per finta – gli scatoloni per il trasloco al termine del primo mandato presidenziale, trovò il tempo per firmare l’atto con cui lo metteva a capo della Consulta: bisognava evitare a tutti i costi che si aprisse un imbarazzante contenzioso tra i togati e il mondo della politica. Missione compiuta. E’ impressionante come il dottor sottile, dopo essere sopravvissuto alla passione di Craxi (il gallo cantò tre volte), abbia fatto a passo di carica tutto il cursus honorum, sfiorando il palazzo del Quirinale, la Consulta é lì vicino, come una specie di indennizzo, e abbia fatto – essendovi stato nominato come consigliere da Napolitano – da ideale trait d’union tra due presidenti che hanno due caratteristiche comuni: la prima é che – senza che tale eventualità sia in alcun modo contemplata dalla vigente Costituzione – essi hanno duplicato la propria presenza sul Colle, mettendo ciascuno un numero di anni superiore a quello di molti personaggi africani divenuti famosi per la loro straordinaria capacità di succedere disinvoltamente a se stessi, come Bokassa e Mobutu. La seconda é che hanno dovuto pagare il conto di un insolente accostamento alla mafia. Uno, Napolitano, perché, intercettato casualmente durante una conversazione telefonica col ministro degli Interni, Mancino, dalla procura di Palermo che indagava su di un’eventuale trattativa tra Stato e mafia, sollevò il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale, della quale faceva parte Mattarella, che dispose la distruzione delle bobine, ritenendole prive di qualunque attinenza con le indagini condotte dalla magistratura siciliana. L’altro, Mattarella, perché il padre, Bernardo, fu indicato dal bandito Pisciotta come mandante di Portella della Ginestra e citato dall’ex guardasigilli Claudio Martelli come un probabile interlocutore di Cosa Nostra nell’immediato dopoguerra, per conto dello Scudo Crociato. Chiacchiere e voci, che lasciano tutto il tempo che trovano. Però che Mario Monti il liquidatore, l’emissario silente della ‘Goldman Sachs’, la più potente banca d’affari americana, quello che vai in pensione quando ormai sei più di là che di qua, fu fatto senatore a vita e poi portato a palazzo Chigi da Napolitano, questa non é una voce. E Draghi, un altro agente della ‘Goldman Sachs’ nominato premier da Mattarella, non é una chiacchiera. Sono fatti. E’ la democrazia che puzza di aria condizionata. Di chiuso. Di truffa.