Gli archivi sono come i bordelli. Tali e quali. È un ambiente pieno di documenti che aspettano i loro clienti. Uno ci va con una certa idea in testa. Chiede alla caposala che fa da maitresse il catalogo delle carte da consultare e fa la sua scelta. Le carte sono oggetti maneggevoli, con una spiccata attitudine ad assecondare lo studioso nei suoi più audaci contorsionismi. Se ne può utilizzare solo una parte: quella che corrisponde ai propri desideri. Ma ci si possono fare mille altre cose, come ignorarle, se non corrispondono alle tue attese, toglierle di mezzo (basta inserirle nel faldone sbagliato) o metterle una accanto all’altro, una sopra all’altra, in una partouze che apre alla ricerca storica degli orizzonti sontuosi.
L’archivio, nonostante le radicate credenze del “volgo”, è un contesto nel quale s’intrecciano le fantasie più acrobatiche, e la lascivia irrompe, come un fiume in piena, nelle menti più castigate. L’archivio è un luogo magico: che crea aspettative e delusioni praticamente dal nulla. Il documento più importante è, infatti, quello che non si trova, quello che non c’è.
Ciò significa che ogni ricerca finisce con un punto e virgola, ma anche con un verdetto di “no contest” che dovrebbe dissuadere il suo autore dal dirsi sicuro che non c’è altro da aggiungere e che è questione finita. È un vizio che ricorre specialmente a “sinistra”. Conosco, ad esempio, una persona – che sarebbe un ottimo storico se non fosse irreparabilmente fazioso – la quale ha costruito tutta la sua carriera intorno ad un documento inesistente: quello che dovrebbe dimostrare come, sullo sfondo del delitto Matteotti, una parte della tangente petrolifera pagata dalla Sinclair fosse finita nelle tasche di Mussolini. Ma questo buco, che un po’ ricorda la vecchia pubblicità di una caramella alla menta, e un po’ le atmosfere decisamente metafisiche di alcune tele di Magritte, non ha impedito ai suoi sponsor di celebrarlo come colui che aveva chiuso il caso Matteotti dopo che io lo avevo riaperto nell”84, spiegando come quella dei “brogli” fosse una barzelletta e come, inoltre, vi si fosse sviluppata intorno, rigogliosa come un tumore, una distesa di assiomi, di proposizioni apodittiche, di stronzate.
Nell”84, mi ero infilato dietro le linee nemiche. Ero un giovane storico. Adesso sono un vecchio gufo rincoglionito. Mi misero all’angolo. Risalire contromano le rapide del luogo comune, di un’opinione pubblica “formattata” ad immagine e somiglianza del mainstream, è un’operazione che ti priva pian piano di tutte le energie, soprattutto se, per cercare quella carta lì e per seguire quella traccia odorosa che dovrebbe portarti dove è già passato l’assassino, ci metti degli anni: molti di più di quanti ne occorrono all’ultimo degli scribacchini per guadagnare il paradiso con una storia totalmente inventata.
Ho scaricato tre saggi sul caso Matteotti. Una traiettoria arcuata lungo la quale la certezza – tributaria di una montagna di documenti – che Mussolini non c’entrava nulla si è evoluta, grado a grado, nel tetragono sospetto che esso sia stato imbastito contro di lui.
Qui, la Grande Distribuzione del Consenso, che la vecchia Sinistra, divenuta roccaforte delle elite, può dispiegare attraverso le sue case editrici e i suoi storici di ventura, avrà vita facile nel trasformare la difesa di questa posizione in un’impresa proibitiva, ma il muro del suono delle verità sostenute per partito preso è stato già infranto una volta e può esservi posto per delle repliche, purché si cominci ad aggredire i dogmi che sono tenuti artificialmente in vita dalla pigrizia investigativa e dalla forza del gregariato.
Metti il “nazi-fascismo”: il prodotto di una forzatura propagandistica, al cospetto della quale si radunano, apparentemente in ordine sparso, delle vicende che fanno trasparire il riflesso di una combinazione scandalosa.
Me ne viene in mente qualcuna.
- Il risultato ultimo degli eventi che iniziano col botto di via Rasella e finiscono nelle Fosse Ardeatine è l’annientamento del Fronte Militare Clandestino di Montezemolo e degli apostati di “Bandiera Rossa”, cioè dei due soggetti che si proponevano come concorrenti del PCI sulla piazza di Roma per l’immediato dopoguerra.
Fatto fuori anche Aldo Finzi – sottosegretario agli Interni sino al giugno del ’24 – che avrebbe potuto essere un testimone eccellente nel processo bis per l’affare Matteotti. Eliminato, più tardi, anche il direttore del carcere di Regina Coeli, Donato Carretta, che sapeva troppe cose su come era stata compilata la lista dei condannati a morte richiesta da Kappler.
- I Tedeschi, nel rinculare verso Nord mentre avanza da Sud la Quinta Armata del generale Clark, prendono in ostaggio Bruno Buozzi, e lo ammazzano in località La Storta.
Buozzi era stato uno dei promotori del Patto di Roma, cioé dell’accordo con cui socialisti, comunisti e democristiani si erano impegnati a ricostruire la CGIL all’indomani della Liberazione. L’uomo viene tratto in arresto dalla Gestapo a seguito di una soffiata misteriosa, e ciò avviene quando si è già manifestato il malcontento degli altri partiti nei confronti dei comunisti, per la loro pretesa di disporre di poteri speciali nella gestione del Sindacato. Un impiccio di meno per il PCI, e la strada in discesa, c’est plus facile.
- A Dongo è un tronco d’albero – neppure nelle comiche di Ridolini – a fermare la colonna dei transfughi fascisti con Mussolini, dopo che questi – nel lasciare Milano – si era lamentato della scarsa affidabilità dell’”alleato” tedesco, paventandone il tradimento.
La contropartita di tutti questi favori? Una proporzionale attenuazione della Resistenza, altro che “Bella Ciao”, la classica manfrina del vorrei ma non voglio, ma non diciamolo a nessuno.
Ipotesi, certo. Congetture. Che qui, almeno, sono tenute insieme da un sottile filo di colla, dal mastice della logica. Tutto ciò che in questi settant’anni non c’è stato, a riprova del fatto che l’autenticità della Storia e delle storie dipende quasi solo dalla potenza degli apparati ai quali ci si appoggia per raccontarle.