Sara Giromini (pseudonimo Sara Winter) è divenuta famosa, nel 2014, per la celebre foto delle due “lesbiche in croce”, nella quale Sara è stata immortalata, insieme ad un’altra militante, durante un provocatorio bacio tra le due donne seminude, vestite di una corona di spine, entrambe appese su di una croce nera posizionata dinanzi le porte della Basilica di Nostra Signora della Candelaria, a Rio de Janeiro.
Sara Giromini è stata fondatrice, nel 2012, della sezione brasiliana del movimento femminista radicale “Femen”, famoso per volgari e blasfeme manifestazioni pubbliche, da poco smascherato grazie al lavoro di un’infiltrata giornalista ucraina la quale, in un documentario (“L’Ucraina non è un bordello” di Kitty Green), racconta come, alle spalle delle azioni di protesta femminile più famose al mondo, vi sia in realtà un paradossale gioco di sottomissione, in totale contrapposizione con gli slogan delle attiviste.
Viktor Svyatskiy, uomo-padrone, paga e recluta donne bellissime e giovanissime (discriminandone molte altre), le quali si prestano ai suoi dettami spesso ignorando quali siano le radici e i significati associati di ciò che sono persuase a compiere. Un rapporto di sudditanza e assuefazione nei confronti di questa figura maschile, agli antipodi di un uomo protettivo, capace di rispetto, tant’è che lo stesso Viktor ammette una condizione di dipendenza resa possibile per lo più dalla fragilità delle stesse ragazze sulla quale fa leva la sua indole. Una setta – come la definisce Sara- dove le donne sono considerate oggetti, “materia prima”, merce senza valore “convenienti e utili per infiammare l’odio contro gli uomini, contro la bellezza delle donne, contro la religione cristiana, contro l’equilibrio delle famiglie”.
Nel suo libro l’ex leader toglie il velo di un movimento che l’ha spinta ad assumere comportamenti bisessuali per ottenere maggior visibilità all’interno del gruppo, un movimento che promuove la pedofilia, spinge alla prostituzione, impone diete durissime, palcoscenico di molestie comiute da donne, un luogo dove il laissez faire poco gratifica la grandezza della donna.
Oggi di Sara si può parlare con termini nuovi: quello spirito combattivo che aveva animato i suoi ideali pro-choice, il medesimo che avvallò la scelta abortiva per il suo primogenito, venne completamente smantellato dalla nascita del secondo figlio, un evento che, nonostante le posizioni ideologiche della madre, seppe mostrarle la grandezza del miracolo della vita.
La metamorfosi di Sara avvenne per istanti: l’istante in cui incontrò suo figlio, l’istante del nome, l’istante in cui l’innocenza estranea sulla quale incitava le donne a prevalere appellandosi ai loro diritti, era una persona, dalla fragilità talmente sacra da rivoluzionare chi prima l’avrebbe ripudiata. L’appello che ora fa alle donne è di non farsi ingannare, parlando da testimone, pentita di essere caduta lei stessa in un tranello ideologico tossico che “non uccide
solo il bambino, ma uccide sua madre”.