Servi inutili

 

Servi inutili

Le mani rappresentano le azioni dell’uomo ed esse sono due come duplice è la misura di ogni azione. Da una parte si trova l’azione nella sua individualità oggettivabile, buona o cattiva. Dall’altra vi è l’anima di colui che ha compiuto l’azione che, più o meno segretamente, testimonia del suo fine e della sua sincerità. E se nel gesto di pregare noi giungiamo le mani, così, per analogia, noi dobbiamo unire la dimensione visibile con quella nascosta di ogni azione. Non è infatti sufficiente compiere un’azione giusta se non lo abbiamo fatto con giustizia. Il fine, perciò, dà forma all’atto. E la storia, tanto quella individuale, che quella collettiva, si comprende solo attraverso l’orizzonte teleologico ed escatologico. Ci dovremmo allora domandare quale sia il fine che segretamente muove tutte le nostre azioni, e anche i nostri pensieri, quale fine è stato finora la bussola della nostra esistenza.

Nella società moderna, e ancor più in quest’ultimo suo corso tecnologico, il fine è quello del dominio. Fine che qui si fa anche mezzo. Come la tecnologia domina la materia, cosi inevitabilmente gli uomini fanno tra di loro. E poco importa quanto questo fine sia più visibile in alcuni e meno in altri. All’interno dei confini di questa società si è tutti soggetti a tale forza. Se allora, forse per la prima volta, si comprende l’urgenza di un nuovo paradigma sociale, dobbiamo partire col riformulare la natura del fine che guida ogni esistenza: e questo fine deve essere il servizio della Verità. Verità come fine e Servizio come mezzo che però si abbracciano in unico riverbero di amore.

«L’arte è una delle azioni più altruistiche dell’uomo. Il significato dell’arte è la preghiera. Questa è la mia preghiera. E se la mia preghiera può diventare una preghiera per gli altri, allora la mia arte diventa più vicina agli altri. Sto parlando di dovere. E il dovere dell’uomo è quello di servire. E questo è esattamente il motivo per cui questa idea è svilita, e diventa una lotta per il potere. Al fine di non dover servire, ma per sfruttare il fatto che gli altri servono. Perché nel mondo c’è solo un principio di relazioni, e che è quello di servire. Non c’è nient’altro.» Così risuonano le parole del regista russo Andrej Tarkovskij.

O il potere o il servizio, servizio per la Verità. Il potere allora chi serve? In fondo solo se stesso, ovvero il principe della menzogna. L’intera vita umana, così come ancora la conosciamo, è stabilita sulla falsità del potere. Lo studio e il lavoro allontanano dalla Verità anziché renderci più prossimi ad essa. Perché lo sguardo del potere è uno sguardo corto, operativo, mentre lo sguardo di chi serve la Verità è penetrante e contemplativo. Se cercassimo la Verità e ci sforzassimo di servirla in ogni momento, rigetteremmo molto del sapere e dei metodi a cui siamo stati abituati, scanseremmo molte delle occupazioni che ci sono offerte; poiché la Verità nella storia personale di ciascuno, ha un nome ben preciso: vocazione.

Una casa accogliente, una vita dignitosa, un titolo prestigioso, un posto sicuro possono essere talvolta effetti secondari e marginali, ma mai il fine, come invece puntualmente accade. La propria affermazione, per quanto sincera, si poggia sempre sopra la sconfitta di qualcun altro. È affermazione, ma non redenzione. Né si può appellare come servizio il semplice impegno altruistico. Qui è una volontà ancora impura che non si appoggia affatto alla solidità dell’intelletto. Il cuore che pulsa è sempre la Verità e i trombi di morte sono tutte quelle “mezze verità” che inaliamo ogni giorno. Affinché invece il lavoro divenga perfezionamento interiore ed elevazione morale e spirituale della comunità umana, esso deve nascere all’interno della propria vocazione. L’uomo non crea opere virtuose e meritevoli perché in competizione con i suoi simili, ma solo perché egli, attraverso il suo ingegno e le sue mani, si sforza di conformarsi al proprio ideale. Il bene va cercato quindi non misurandosi con gli altri – ecco il trionfo del mercato dove tutto si compra e si vende, anche il sapere –  ma con l’immagine inscritta dentro di noi. L’uomo deve farsi somigliante al suo Creatore e il suo cammino è solo un cammino di servizio: qualunque altro percorso lo conduce lontano dalla meta. La trasformazione a cui siamo chiamati si attua così in un passaggio dall’esterno verso l’interno.

Seguire tale traiettoria è però tutt’altro che agevole. Non passa giorno che spine si conficchino nella carne e nell’anima. Sulla vetta si deve arrivare leggeri e il dolore serve a purificare da tutto ciò che non è necessario. Chi dice che perseguire la propria vocazione è percorso comodo e piacevole, non sa davvero di cosa sta parlando. Quando solo intravediamo la nostra vocazione, ancora sfumata e lontana, già ci sentiamo attratti da una forza che non siamo noi a governare. E tale forza è violenta e tenera allo stesso tempo; è compagna, e maestra inflessibile. Bisogna sperimentarla per poterne parlare. Non tutte le forze hanno il medesimo impeto, perché differenti sono i confini e gli orizzonti, ma identico è il riconoscere che questa forza abita in noi, ma viene da sopra di noi.

Ciò che sta all’interno deve mutare ciò che si concretizza all’esterno, pertanto non si può dare trasformazione della società che non parta dalla persona. Così come non si può dare veramente persona che non sia inserita in un organismo sociale sapientemente ordinato. Uomo-Società-Cosmo formano una triade che si influenza vicendevolmente e incessantemente.

I tumulti che scuotono questo mondo, stanno già svelando molti cuori, perché così deve essere. Quando la terra trema e si sconvolge le crepe gettano luce su quello che era nascosto al di sotto. Alcune sono terre aride, altre nascondo sorgenti luminose e dissetanti, altre ancora fuochi che si allungano sino al cielo. Ciò che prima era opaco ora diviene trasparente, perché di tale fattura sarà l’Umanità che si prepara a venire. Mostrarsi significa far conoscere a quale voce abbiamo prestato ascolto, dove segretamente custodivamo il nostro cuore, in attesa di godere lo sperato tesoro. Mostrarsi significa permettere di vagliare, per poter poi ricongiungere le anime davvero affini con le quali intraprendere questa ultima parte del viaggio: la più difficile e splendida.

«Ero seduto nel cortile del monastero su una panchina, all’ombra dei cespugli col mio taccuino. “Cosa stai facendo? Cosa stai scrivendo lì?” mi chiese una bambina, che aveva circa dieci anni. “Sto cercando di scrivere musica, ma non sta andando bene”, dissi. E poi le inattese parole di lei: “Hai già ringraziato Dio per questo fallimento?”. Lo strumento più sensibile è l’anima umana. Il successivo è la voce umana. Si deve purificare l’anima finché essa comincia a suonare. […] Si deve iniziare da qui, non dalla musica. […] Essere come un mendicante quando si tratta di scrivere musica, qualunque cosa, in qualunque modo, e ogni qualvolta Dio dà. Non dovremmo addolorarci se scriviamo poco e male, ma perché preghiamo poco e male, e tiepidamente, e viviamo nel modo sbagliato. Il criterio deve essere sempre e soltanto, umiltà.»

Sono le parole del compositore estone Arvo Pärt. Servizio è umiltà. Non prestare uno sguardo adulatore al risultato, perché il grande obiettivo è sempre al di là del solo sforzo umano. Noi al contrario misuriamo e pesiamo tutto, elevando o degradando con una frivolezza sconcertante. Quanto poco invece sappiamo dire del reale valore di un uomo! Ecco, dunque: un paio di calzari robusti, lo zaino in spalla. Da qui inizia il viaggio. Il resto è inutile zavorra che offusca la vista del traguardo, laggiù dove, in linee turchesi e cremisi, cala l’orizzonte.

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