Spike, un nome simpatico per una proteina killer
Tredici persone vaccinate con Moderna e seguite per meno di due mesi con qualche prelievo ogni tanto: è bastato questo per dar corpo all’ipotesi nostra e di vari altri ricercatori secondo cui i vaccini a RNA (e probabilmente anche quelli a DNA/vettore virale come Astrazeneca, J&J e Sputnik V) inducono una produzione di proteina spike virale in tutto l’organismo, in tempi e con livelli variabili da individuo a individuo.
Gli attuali prodotti per l’immunizzazione Covid (Pfizer, Moderna, Astrazeneca, J&J e anche Sputnik V) non sono vaccini convenzionali bensì prodotti medicinali con un principio attivo e degli eccipienti, e probabilmente con un effetto che dipende dalla dose e dalla reattività individuale. Questo in sintesi quanto si argomenta nella lettera pubblicata oggi online sul Journal of Neuroimmune Pharmacology (Springer-Nature) che potete consultare qui https://link.springer.com/article/10.1007/s11481-021-09998-z).
Un vaccino contiene di regola il microrganismo ucciso o attenuato, dei suoi frammenti o eventualmente una tossina inattivata. Il suo meccanismo d’azione implica unicamente la stimolazione del sistema immunitario, eventualmente favorita dalla co-somministrazione di agenti pro-infiammatori.
Gli attuali prodotti sono invece farmaci per terapia genica, in quanto contengono un principio attivo (DNA o RNA) che induce nelle cellule, nei tessuti e negli organi in cui arriva la produzione della proteina virale spike, la quale a sua volta è una sostanza in grado di legarsi a specifici recettori nei vari tessuti ed esercitare effetti di vario genere, tra i quali quelli meglio caratterizzati sono sull’endotelio e nel cuore; gli eccipienti che ne determinano la stabilità, l’assorbimento e la distribuzione nell’organismo, in relazione alla via di somministrazione e alla localizzazione in specifici organi e tessuti.
Nello studio, i ricercatori affermano di ritenere che gli effetti dei prodotti Covid attuali dipendano da dove la proteina viene prodotta, da quanta ne viene prodotta e dall’eventuale successiva diffusione della proteina nell’organismo. Una produzione locale limitata stimola il sistema immunitario, una produzione sistemica eccessiva potrebbe paradossalmente mimare i vari aspetti del Covid in maniera più o meno marcata. In altri termini, è necessario studiare l’assorbimento, la distribuzione e l’eliminazione di questi prodotti, nonché la loro attività anche in relazione ai recettori della proteina spike, noti come ACE2. Sarà possibile in tal modo migliorare il profilo di efficacia e di sicurezza dei prodotti attuali, identificando anche biomarcatori utili a prevedere preventivamente i benefici attesi rispetto agli eventuali rischi di effetti avversi nei singoli individui, come pure possibili trattamenti farmacologici utili a prevenire gli effetti avversi o a ridurli ove si manifestassero. Di sfuggita, le notizie sui sovradosaggi accidentali di vaccino e sulle loro conseguenze cliniche indirettamente confermano questo punto di vista, che offre anche potenziali approcci razionali al trattamento delle loro conseguenze.
Lo studio, pubblicato il 20 maggio scorso sulla rivista Clinical Infectious Diseases edita da Oxford Academic Press potete leggerlo qui https://academic.oup.com/cid/advance article/doi/10.1093/cid/ciab465/6279075 ), riporta per la prima volta la presenza di proteina spike e in particolare della subunità S1, quella che si lega al recettore ACE2 sulle cellule della persona contagiata e che è alla base della reazione infiammatoria tipica del virus (date un’occhiata anche qui https://www.ahajournals.org/doi/10.1161/CIRCRESAHA.121.318902), nella circolazione sanguigna, con ampia variabilità interindividuale.
Questo piccolo studio fornisce di suo l’evidenza che più spike viene prodotta più viene stimolato il sistema immunitario, sostenendo implicitamente anche la possibilità che dai livelli di spike prodotta dipenda pure il verificarsi e l’intensità degli effetti avversi. Si tratta precisamente di uno degli studi che avrebbero dovuto esser richiesti nella “fase 1” della sperimentazione clinica. Forse fatti spontaneamente dall’industria, certo richiesti dalle agenzie regolatorie. A parziale scusante, si può osservare che probabilmente data la novità della tecnologia impiegata e dunque la scarsa esperienza con la medesima da parte dei regolatori e forse degli stessi ricercatori che la hanno sviluppata, l’ipotesi di avere che fare non con un vaccino tradizionale bensì con un farmaco che come tale avrebbe dovuto essere studiato non sia risultata così evidente. Sulla base di questi nuovi risultati, pare del tutto ovvio che si rendano inevitabili ulteriori studi utili a capire le basi dell’enorme variabilità interindividuale già evidente in sole tredici persone, nella prospettiva di controllare adeguatamente efficacia e sicurezza di questi prodotti. A questa variabile produzione, per quantità, durata e forse anche per sede d’organi e tessuto, potrebbe essere ricondotta la variabile risposta a prodotti a RNA/DNA, in termini di efficacia e soprattutto di tollerabilità; ecco perché è necessario studiare l’assorbimento, la distribuzione e l’eliminazione di questi prodotti e la loro attività anche in relazione ai recettori della proteina spike, noti come ACE2.
Merita un discorso a parte la questione della gestione elettromagnetica dei nanorobot propri della nanovaccinologia, come già emerso anche per i vaccini Covid: la produzione della spike è direttamente collegata all’azione svolta dai microscopici robot, controllati dall’esterno su frequenze specifiche. Quello che è chiaro è la natura ingegneristica di queste terapie, la cui applicazione nel laboratorio mondiale porterà nella direzione già calcolata da coloro che li hanno prodotti e massicciamente imposti, a suon di propaganda politica, in tutto il globo.