La specie della mafia, in Sicilia, che era stata sterminata dal regime fascista, vi fu reintrodotta dagli Angloamericani alla vigilia dell’invasione. Risalendo la penisola, le armate dei “Liberatori” invitarono sul palcoscenico lo sciuscià che lucidava in ginocchio gli stivali di John e la gentildonna napoletana che si offriva ad uno dei suoi ufficiali per una tavoletta di cioccolata. Nel maggio del 1944, dopo lo sfondamento della linea Gustav, comparvero i goumiers, delle strane creature, mezzi animali e mezzi uomini, che non ebbero riguardo alcuno neppure per i bambini, Hieronymus Bosch li aveva già visti e segnalati nei primi anni del ‘500.
L’oleografia della Liberazione nell’Alta Italia, tutta fazzoletti rossi e sorrisi Durban’s, sfuma nel plumbeo realismo degli aerei alleati che stendono una povera donna uscita da casa per andare a fare la spesa, e in quello dei Tedeschi che trattano la resa all’insaputa del Duce e lo abbandonano nelle mani di un piccolo distaccamento di partigiani, lui, gli occhi spiritati dell’uomo che ha capito di essere diventato merce di scambio (la pelle del nemico numero uno dei comunisti contro la possibilità di ritornarsene sani e salvi in Germania con tutti i bagagli al seguito), imbacuccato dentro un goffo pastrano della Wehrmacht, troppo più grande, immenso: uno sfregio – mi si perdoni l’accostamento quasi blasfemo – del tutto simile a quello fatto a Gesù con l’iscrizione “INRI” postagli sulla croce appena giunto sul Golgota.
Si può raccontare la storia in mille modi diversi, ma non c’è il minimo dubbio sul fatto che quello autorizzato dal mainstream sia, tra tutti quelli possibili, il più lontano dalla realtà. Quel cadavere che ciondola, livido di botte e di sputi, dal ponteggio aereo di un distributore di benzina è stato per coloro che credono ancora nella logica inesorabile del destino, una riproposizione del contrappasso dantesco. Lo sarebbe stato se dopo i fatti di piazzale Loreto dell’agosto del ’44, Mussolini non avesse manifestato, in una lettera indirizzata all’ambasciatore tedesco presso la RSI, Rudolph Rahn, il proprio disgusto per la strage e, se perseverando nel comodo errore di ascrivere al “nazifascismo” (una formula che mette insieme arbitrariamente capre e cavoli) gli eccessi inumani compiuti in guerra dalla soldataglia tedesca, l’aureola concessa ai sette fratelli Cervi, massacrati dai nazisti, sia stata invece negata ai sette fratelli Govoni, uccisi dai “partigiani” quando la guerra – a maggio del ’45 – era già finita, con l’ulteriore aggravante che qui si era trattato di italiani che avevano ammazzato altri italiani e che la “guerra civile” – un altro eufemismo- che si vuole da più parti evocare come sfondo di questa strage, si risolse piuttosto in un atto di barbarie perpetrato a danno di gente innocente ed inerme, sulle carezzevoli note di “Bella ciao”.
Ora, è vero che, indipendentemente dalle epoche e dai contesti, sono sempre i vincitori a scrivere la Storia, ma sarebbe bene dichiararlo sul frontespizio dei libri destinati agli studenti delle medie – semmai si continuerà a proporre ancora tale materia – giacché, nel constatare che furono in tutto 118 le condanne capitali comminate durante il Ventennio, a fronte delle 17 mila del regime hitleriano e qualche milione di morti ammazzati rivendicati con orgoglio da Stalin, ci si dia una regolata nel valutare, sin da piccoli, il cabotaggio, sul piano morale, dei tre sistemi illiberali del ‘900 e si faccia mente locale, ad esempio, sulla differenza che passa tra l’aver punito i dissenzienti con delle vacanze forzate sotto il sole delle Tremiti o averle liquidate nel gelo della Siberia.
Ho trascorso quasi tutta la mia vita di adulto a scartabellare tra i documenti sopravvissuti al “repulisti” operato dal mainstream. Mi ha sostenuto in queste ricerche l’inossidabile certezza che la Storia è un ordito di parole e di fatti troppo grande perché non ne resti anche una traccia, un atomo ballerino, dopo il più energico dei tentativi compiuti per cancellarla.
Sarà stato che sono infinitamente bravo o che ho avuto la fortuna di imbattermi nell’onda giusta mentre scivolavo come un surfista sui faldoni messimi a disposizione dell’Archivio Centrale: sta di fatto che ho scoperto molte crepe nella ricostruzione di due eventi – il delitto Matteotti e l’assassinio dei due fratelli Rosselli – che costituivano, in assenza di riscontri obiettivi, il pane e il companatico di tutte le intemerate contro il Fascismo. “Costituivano” è forse una parola grossa, alla quale mi avvicina la speranza di poter lavorare, se ne avrò ancora il tempo e la voglia, in un mondo in cui i funzionari dell’archivio ti negano l’accesso alle carte che hanno invece in serbo per un ricercatore dell’altra sponda, con la malleveria del PD; in cui l’editore, nel fare – come si dice – i conti della serva, soccombe al timore di immettere sul mercato le pubblicazioni che riscuotono il silenzio dei conformisti e la maestosa indifferenza di coloro ai quali di quelle cose lì, così brutte e così lontane, non importa nulla.
Per inciso, se così fosse, non avrebbe senso l’ostinazione della Sinistra, divenuta valletta e attendente del Capitale, nel fomentare l’odio verso i fascisti che lei stessa agita da dietro un separé esercitandosi nelle ombre cinesi, ma la “damnatio memoriae” imposta al Ventennio, prima con la legge Reale e poi con la legge Mancino del ’93 (senza contare le ripetute esortazioni al Parlamento da parte dei vari Fiano e Zan perché si arrivi con le restrizioni e coi divieti ancora più in là, non si sa dove), al netto dei difetti appalesati dal regime fascista, tradisce solo la preoccupazione di alienare agli italiani, specie ai più giovani – esonerati dall’obbligo di informarsi sul passato del proprio Paese – un punto di riferimento al quale appoggiarsi per capire se questo di oggi sia uno Stato, se questa sia una Nazione, se la democrazia di cui menano vanto i partiti dell’arco costituzionale, nel consentire agli sprovveduti e ai ladri di arrivare al potere ( fittizio o reale che sia), non si sia trasformata nella più nefasta delle finzioni.
Dicevo del caso Matteotti e del caso Rosselli, ma potrei, in presenza di altro spazio, allungare sino ai giorni della Resistenza inoltrata, al tempo in cui il colore del tramonto che calava sulla guerra in Italia favoriva la promiscuità degli attori e dava copertura ai giochi di ruolo che saltavano scardinando tutte le convenzioni: ai Tedeschi che si ritiravano da Roma avendo fatto al PCI il piacere di togliergli di mezzo un concorrente temibile come Buozzi e altri eventuali ostacoli sulla strada che si protendeva verso il Governo Nazionale, finiti nel carnaio delle Ardeatine: dal colonnello Montezemolo agli apostati di Bandiera Rossa.
E’ evidente come per cautelarsi dal rischio di dover fare “coming out” e di doversi difendere dall’accusa di aver chiuso diversi scheletri nell’armadio, i discendenti del vecchio PCI e tutta la classe politica che dice di aver ereditato i sacri principi della “Liberazione”, tengano duro sulla versione canonica dei casi legati ai nomi di Matteotti e Rosselli, senza la quale il Male Assoluto finirebbe per essere un Male Relativo e si aprirebbero addirittura delle discussioni su quanto poco fosse il Male che si poteva ricavare dalla distillazione del Fascismo.
In sintesi, il cadavere di Matteotti franò tra i piedi di Mussolini nel momento in cui questi, dopo aver vinto a man bassa le elezioni politiche, si stava adoperando per far entrate i socialisti unitari nella maggioranza di Governo. Il carteggio tra Suckert (Malaparte) ed Alceste De Ambris, che è stato da me presentato per la prima volta nell’ultimo libro di una trilogia cominciata nel 1984, non lascia alcun dubbio al riguardo, benché non scalzi il movente affaristico, che rimane sullo sfondo di una terribile contesa tra USA e Regno Unito per acquisire il dominio dei traffici petroliferi nel nostro Paese.
Quanto ai Rosselli – di cui mi sono occupato in un libro di qualche anno fa – gli indizi (dalla comparsa del conte di Spoleto e della sua scorta armata a Bagnoles de l’Orne proprio in concomitanza con l’uccisione dei due fratelli, all’ammissione, da parte di Nello, di aver trovato dei documenti sull’affare del Consolato di Zurigo, un’intricata vicenda spionistica della Grande Guerra, e di apprestarsi a farne uso per gettare discredito sulla Corona) convergono in modo del tutto fluido e naturale sull’ipotesi che l’ordine di sopprimerli fosse partito dal Quirinale e che Palazzo Chigi si fosse semplicemente limitato a reggere il moccolo, che è cosa ben diversa dall’essere responsabile del delitto.
Storie tanto più sporche perché sono stati fatti i salti mortali per occultarle, ma storie vere. Se poi – come mi auguro – qualcuno vuole avere da me ulteriori precisazioni o mettermi a parte delle sue in un eventuale contradditorio, si accomodi pure. Io sto qui. Il caffé: macchiato?