Sulla legge del “reato di tortura”
La legge sul reato di tortura è stata approvata dalla camera in via definitiva dopo quattro anni di discussioni e modifiche nel luglio del 2017. La legge è a firma PD, il depositario è Luigi Manconi, che si è astenuto durante la votazione perché, il testo finale, come spesso accade, non era rispondente completamente a quanto all’inizio si prospettava; commentò la votazione infatti dicendo che non avrebbe risolto molto questa norma così costruita.
Ci si appella alla dignità della persona e quindi l’articolo 613- bis del codice penale recita che incorre in reato: “Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”.
Il testo finale insomma lasciava e lascia ampi spazi discrezionali, come ad esempio il limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo oppure l’esclusione dalla legge delle sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti da parte dei pubblici ufficiali.
Di cosa può lamentarsi quindi Giorgia Meloni o il suo ufficiale Edmondo Cirielli, i tutori del giustizialismo a tutti i costi, figli di una destra reazionaria, che oramai oltre all’elettorato ha perduto il contatto con la realtà politica.
La storia carceraria e giudiziaria non solo degli ultimi anni e non solo relativa ai fatti della irruzione alla scuola Diaz al G8 di Genova del 2001 è costellata di violenza gratuita, dominanza psicologica, abuso e cattivo uso di potere da parte delle forze dell’ordine, quelle che sì, dovrebbero tutelarci, ma che evidentemente sono fatte da uomini predisposti come gli altri all’errore consapevole.
Rimane poi da discutere il ruolo del carcere e il valore della Giustizia. Se il carcere è rieducativo, il fine ultimo non può essere l’ammissione di colpa da ricercare a tutti i costi e con ogni mezzo, se la giustizia è la garanzia dell’equità non si può pensare di concedere lo strapotere a chi agisce e la passiva ricezione del primo a chi subisce. Certamente i difensori della cultura liberare troveranno più gradevole appellarsi ai diritti individuali, ma non sarebbe corretto ridimensionare il senso di giustizia a ciò che è giusto per me individuo, è il giusto in senso di civiltà e di Stato, in senso di valore.
Solo universalizzando determinate idee, come Platone ci ha insegnato noi possiamo garantire un futuro maggiormente roseo alla nostra decaduta civiltà. Ma Giorgia Meloni non si occupa di discutere le problematiche della Giustizia in italia, della situazione carceraria, del processo equo e via discorrendo, no; fedele burattino di un apparato politico giustizialista, che da Almirante stesso si è prodigato in affermazioni robuste per quanto insensate, ha urlato l’abolizione del reato di tortura, riesumando ancora una volta il peggio di una destra definitivamente morta.