Togliere il velo

 

Togliere il velo

Un albero è un albero. Il livido asfalto, una striscia nera su cui correre e sfuggirsi. I negozi alla moda, sale luccicanti dove acquistare un’illusione di umanità a prezzi scontati. Le accademie e le scuole, stanzoni in cui riempire le menti e gli animi come le grosse sacche ad un mercato. Un albero, per noi, è solo un albero. Sono le parole, gli sguardi ad essere divenuti opachi, spenti. È la distanza dalle cose ad essere sbagliata. Un passo più vicino non significa intimità; anzi tutto così diventa sfuocato e si finisce per andarci a sbattere. La vista è corta, quando dovrebbe essere invece fine per scrutare attraverso.

Eppure in una pozza sporca, sprofondano le lune di molte notti, le nubi di molti venti. Perché una pozza è il pegno per un mare più grande, lo specchio ad un cielo più vasto. «Passa infatti la figura di questo mondo», ma noi a questa figura restiamo invece avvinghiati come un amante lussurioso. Le mani stringono, le labbra invocano, il sudore denuda la nostra brama. “O passione, o morte! Ho questa di vita, solo questa!”, sembra di udirne le grida. Peccato però che questa vita non sia la nostra, ma solo quella di un prestito a scadenza, che si trascina nel sonno, in attesa del risveglio.

«Le sue folgori rischiarano il mondo: vede e sussulta la terra» recita un Salmo. Questo mondo è avvolto nel buio, ma in realtà esso è tutta luce. Così accecante che essa può apparire solo per brevi istanti. La nostra vita è tutto un mediocre peregrinare in questa cappa buia. Ci illudiamo di vedere, di comprendere, ma in verità sappiamo ben poco, viviamo ben poco. Qualcosa in profondità sobbalza e grida: “Più luce! Più luce!”, ma noi non vi prestiamo quasi mai attenzione. Ed è così che infatti ci adattiamo anche ad un’arte mediocre, delle stesse tonalità grigie e cupe della nostra vita. Ci specchiamo in essa, contenti di non dover compiere alcuno sforzo. Sì certo gli entusiasmi, le passioni, le conquiste per l’operosa abnegazione non mancano; anzi servono esattamente a mantenerci quieti nelle colonne ordinate che questa società ha scientemente progettato per noi.

Il quotidiano ha invaso i confini della narrazione, dell’espressione creativa, della letteratura, del cinema. Vite “anormali” di personaggi ordinari. Come ovvio contraltare, abbondano le grandi avventure, le storie fantastiche. Ottime per una adrenalinica fuga restando sul divano di casa. Nel mezzo, un nutrito programma di assassini, ladri, stupratori, drogati e ogni sorta di figure che hanno scavalcato il confine della liceità e della decenza. Cosa manca allora, mi si chiederà? Non è forse questo abbastanza? Non giunge tale arte a rappresentare ogni aspetto, ogni accento dei tempi in cui viviamo? Tutto questo è solo natura. Quello che manca è la sopra-natura. Tutto questo è umano, terribilmente e paurosamente umano. E allora, il cosmico e il metafisico?

Noi abbiamo dato all’uomo, attraverso l’arte, ciò che già sperimenta nella vita. Ciò in cui può immedesimarsi. Lo sguardo dell’artista si è così sovrapposto allo sguardo dell’uomo comune. Il suo linguaggio, la forma delle sue opere è comune. Se qualcuno ha osato superare i confini angusti di questa gabbia ha ricevuto l’epiteto di pretenzioso e arrogante. Critici da poco conto che vorrebbero distruggere l’opera di chi li sopravanza di gran lunga. Nani che schiacciano giganti, perché protetti dalla forza del numero. Ciò che è vero, non è ciò che è ordinario, ma ciò che è normale. Perché origina da una norma, la quale garantisce perfetta sintesi di ordine e bellezza. Per un cristiano, a voler fare un esempio, la norma umana è il Cristo!

Le nostre vite sembrano capaci si esperimentare solo l’ordinario, il contingente. La società odierna, che forse conta finalmente i suoi giorni, ha il fiato corto, come il suo sguardo. Non ammette azioni che superino il valore del contingente perché non consente cittadinanza a pensieri che trafiggono la cortina di questo mondo. Nell’arte, non si tratta solo di contenuto, ma di contenuto e forma assieme. L’arte esige sforzo tanto dall’artista che dal suo fruitore. A che serve capire se poi restiamo uguali? Le parole, le azioni in un film, ad esempio, non devono essere “per forza” comprensibili, logiche.

In un grande palazzo, una ragazza è seduta su una panca intenta a leggere un libro. Un uomo, uno sconosciuto, le si avvicina.

«Mi scusi. Cercavo di ricordarmi una cosa.»

«È importante?» chiede lei.

«No… Cos’è questo, lo sa? Io sono entrato qui per caso.»

«L’uomo che l’ha costruito è morto sotto un tram.»

Così David Locke incontra questa giovane studentessa in una sala del Palazzo Güell a Barcellona nel film Professione: reporter di Antonioni. Da dove provengono queste parole? In quale regno sono germogliate? Tutto questo ci appare infatti assurdo, illogico, certamente non ordinario. Perché è semplicemente Vero. Tutto questo è la Vita che viene in soccorso alle nostre aridità, come un fiore solitario che saluta il cielo dalle sabbie di un deserto.

Allo stesso modo le immagini e il il ritmo devono spingerci verso un altro regno che non sia la nostra quotidianità. Il naturalismo ha già fatto abbastanza vittime. Vogliamo che l’anima si riprenda i suoi spazi. Con i suoi misteri, i suoi necessari silenzi, le sue parole inattese. Forse l’ora è propizia, per un nuovo inizio, per uno sguardo che si fa nuovamente Poesia.

Le tendine ocra disegnano onde che vibrano sulle pareti. La brezza invade la stanza, si scuote la vita. Là, oltre il velo, un mare di luce domanda di entrare. Non temiamo di gettarvi lo sguardo. La Verità si fa strada proprio attraverso il Mistero; oltre le macerie della storia, nel trionfo preparato nei cieli. Tempi come questi esigono domande e risposte ultime e un’Arte che sia nuovamente luminosa ed ultima.

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