Tranquilli, vi hanno sempre preso per il culo


 

Tranquilli, vi hanno sempre preso per il culo

E’ davvero rimarchevole la naturalezza con cui le stesse persone che non si sono bevute lo sbarco degli Americani sulla Luna, reputando di essere rimaste imbottigliate nel set planetario del ‘Truman Show’, o che imprecano perché mamma RAI sopprime gli incendi di Parigi, come si fa coi bambini ai quali si nega la visione delle scene scollacciate, non tenga conto del fatto che il racconto della Storia è la prerogativa che di norma i vincitori e i loro lacchè, avidi di marchette, rivendicano nei confronti dei vinti, e che dunque la verità storica non potrebbe mai albergare da quelle parti.

In Italia – giusto per cominciare col caso Matteotti, al quale ho sacrificato degli anni – neppure la facile constatazione che c’era stato due mesi prima il trionfo elettorale del PNF e che solo un cretino, dopo averlo ottenuto, avrebbe potuto vanificarlo facendo ammazzare uno dei capi dell’Opposizione, ha mai indebolito nell’opinione pubblica manipolata dalle Sinistre lo sciocco convincimento che quel delitto sia stato opera di Mussolini. Tutto questo, nonostante la bobina n. 52 dei microfilm del Dipartimento di Stato Americano – da me intercettata nel corso della mia lunga villeggiatura all’Archivio Centrale dello Stato – riveli che l’esclusione dell’Anglo-Persian dall’asta per l’aggiudicazione del mercato petrolifero italiano era accompagnata da propositi di vendetta da parte degli Inglesi, e il carteggio – altra mia scoperta, passata prevedibilmente sotto silenzio – tra Alceste De Ambris e Curzio Suckert (quest’ultimo espressamente incaricato dal Duce, benché riluttante, a sondare il terreno) dimostri che il capo del fascismo aveva in animo di associare i socialisti al Governo della Nazione, ergo che l’uccisone di Matteotti fu concepita per farlo subito desistere dalla realizzazione di tale progetto.

Anche la figura di Dumini, il capo della banda che sequestrò il segretario del PSU sul lungotevere – diventa qualcosa d’altro quando viene sottratta al riflesso deformante della ‘vulgata’ per essere esaminata sotto una lente d’ingrandimento. È l’uomo che nel 1923 uccide a Parigi – molto presumibilmente su indicazione di una cricca esterna con delle ramificazioni all”interno del PNF – il delegato del partito, pupillo del ‘duce. È il ‘fascista’ che a Derna, nel ’41, va incontro alle avanguardie inglesi per portare loro in dote incartamenti e notizie, e che per alimentare l’equivoco, si fa ‘fucilare’ scampando miracolosamente ai 17 colpi esplosi contro di lui da un plotone d’esecuzione.

Chi é Dumini, se uno zio, per parte di madre, lavora come ingegnere nei cantieri che in America sfornavano navi da guerra, e se, ricercato per essere sottoposto ad un nuovo processo- farsa, nel ’47, per l’assassinio di Matteotti, lo rintracciano a Piacenza mentre presta servizio in qualità di autiere alle dipendenze degli Alleati? Come si spiega che nel dopoguerra i giustizieri del PCI massacrarono migliaia di civili, colpevoli soltanto di aver preso la tessera del PNF, ma lasciarono indenne proprio lui che della ‘violenza fascista’ era considerato un’incarnazione, se non col fatto che si era cautelato da ogni pericolo depositando presso diverse banche e diversi uffici legali all’estero dei memoriali con la sceneggiatura autentica dell’affare Matteotti e con l’avviso che avrebbero dovuto renderli pubblici solo quando fosse morto di morte violenta?

Tutto il film – da dove comincia il rauco ruggito della Goldwyn Mayer alla citazione nei titoli di coda dell’ultimo costumista- é una fantastica sequenza di istantanee farlocche. A Dongo, quel 27 aprile del 1945, bastò un tronco d’albero messo di traverso sulla provinciale a fermare una colonna di Tedeschi in ritirata composta da più di trecento elementi, mentre a guardia del posto di blocco erano attestati solo sette partigiani. Si può? O non ci si deve, al contrario, fare assistere dalla logica e dal buon senso nell’avanzare il sospetto che in realtà quel povero diavolo chiamato Benito Mussolini – il pastrano troppo largo e l’elmetto sghembo calato sul capo chino, come la corona di spine con cui, per sfregio, fu presentato a Pilato Nostro Signore – altro non era se non il pegno pagato dall’infido alleato germanico agli AngloAmericani per non essere disturbato durante il controesodo verso casa.

E quel Pierluigi Bellini Delle Stelle (Pedro), il partigiano che lo ebbe in consegna, della famiglia – tutta squadra e compasso – alla quale apparteneva tale Umberto, un orditore di trame al tempo in cui, col cadavere di Matteotti che ancora non si trovava, faceva la spola tra Londra e Parigi per tentare di raccogliere i mille danari che gli servivano per organizzare un colpo di Stato: é mai possibile, cioè, che io non abbia mai fatto tredici al Totocalcio nonostante siano così frequenti tali combinazioni?

Anche per quanto riguarda piazzale Loreto e dintorni, una sofisticazione per certi versi geniale: già, perché l’eccidio dei detenuti di San Vittore che vi era stato consumato su disposizione del Comando tedesco, quale risposta ad un attentato che non aveva fatto peraltro nessuna vittima, fu recisamente condannato da Mussolini, il quale, nel rivolgersi per lettera all’ambasciatore Rahn presso la R.S.I, sottolineò come la brutalità e la gratuità delle rappresaglie poste in atto dai Tedeschi sortissero soltanto il risultato di convogliare sui fascisti il risentimento della popolazione milanese.

Nella lugubre mostra di trofei di piazzale Loreto non c’è dunque alcuna forma di contrappasso, tranne che – a voler dare dell’importanza al linguaggio per allusioni e per metafore, tipico della setta massonica – non si concentri l’attenzione sul ponteggio aereo del distributore di benzina, per significare il ruolo che il petrolio aveva avuto – e avrebbe esercitato anche in seguito – sulla storia del Paese, non soltanto su quella iniziale del regime fascista.

Se la verità storica rimane spesso schiacciata tra gli opposti punti di vista di due grandi fazioni, ci si dovrebbe aspettare addirittura che evapori allorché manca il contradditorio, perché in tal caso non c’è altro posto che per il racconto della Storia e delle storie fatto dal detentore del banco.

Allora, appunto, si spiega come, per dare un senso compiuto alle oscure vicende che s’intrecciano nell’immediato dopoguerra – alba e tramonto insieme, il colore ambiguo di ciò che comincia mescolandosi a ciò che finisce – nessuno, eccetto me, abbia mai pensato e scritto – sulla base di un pedestre procedimento logico – che il sospetto di un indicibile baratto avvenuto dietro l’arresto di Musolini a Dongo valga anche 1) per l’uccisione, da parte di un reparto tedesco in ritirata da Roma sotto l’avanzata della V Armata americana, di Bruno Buozzi, l’esponente socialista che aveva appena sottoscritto il ‘Patto di Roma’ per la ricostituzione del sindacato unitario, e che si proponeva su questo terreno come un formidabile concorrete dei comunisti e, 2) per i criteri con cui vennero stilati gli elenchi dei condannati a morte destinati alle Fosse Ardeatine, scelti in gran numero tra i seguaci del colonnello Cordero Lanza di Montezemolo, che si candidava, per conto della Corona, all’amministrazione dell’ordine pubblico in Roma, per quando la capitale fosse stata sgomberata dalle truppe tedesche, e tra i partigiani di ‘Bandiera Rossa’ che a Roma contendevano al PCI la direzione politica del movimento resistenziale.
La fucilazione del questore Caruso, al quale fu attribuita ingiustamente la colpa di non essersi opposto – per quanto poco potesse – alle ingiunzioni della Gestapo, e il linciaggio, privo di qualsiasi giustificazione, del direttore del carcere di Regina Coeli, Carretta, ebbero, al di là della suggestione propagandistica, l’unico effetto di togliere dalla scena le uniche due persone che sapevano come fosse stata impostata la lista dei prigionieri da mandare alle Fosse Ardeatine.

Il giorno in cui sarà cessata la guerra civile a bassa intensità che si sta combattendo in Italia da più di ottant’anni, sarà forse possibile provare, come Giampaolo Panza, cosa succede se si è colpiti dalla folgore sulla via di Damasco, o avere soltanto un’idea di cosa può succedere se si è fatto finalmente tesoro delle lezioni sull’equità impartite a suo tempo da De Felice.

Per dirne una, il regime hitleriano non coabitò con l’imperatore Guglielmo, e quello sovietico non ebbe tra i piedi la famiglia Romanov, ma quando si parla del Ventennio si fa riferimento ad un periodo della storia nazionale in cui le fibre del sistema monarchico si compenetrarono così strettamente – come il nylon e la lana di un comune capo d’abbigliamento – in quelle del PNF, peraltro a vocazione repubblicana, da imporre una religiosa attenzione nel valutare quanto dell’uno e dell’altro ci fosse nelle vicende, spesso tragiche e tormentate, che vi trovarono alloggio.

E, invece. Invece, mi cucirono addosso la fredda indifferenza che avvolge gli alieni e i pazzi quando, tanti anni fa, allertato da dei particolari che partivano da due direzioni diverse e s’incrociavano nello stesso punto, decisi che non sarebbe stata fatica sprecata il riesame dell’affare Rosselli sotto altra luce, e scoprii – sarebbe stato meglio che mi fossi occupato di giardinaggio – che ad uccidere i due fratelli a Bagnoles de l’Orne era stato un complotto ordito da Aimone di Savoia – Aosta e dal barone Pompeo Aloisi che, nel febbraio del ’17 aveva fatto aprire con la fiamma ossidrica la cassaforte del consolato austriaco di Zurigo alla ricerca dei documenti che rivelavano l’identità delle spie e dei sabotatori di due corazzate italiane, la ‘Benedetto Brin’ e la ‘Leonardo da Vinci’, che erano saltate in aria ed erano affondate mentre riposavano in acque amiche.

Lo scasso di Zurigo – l’impresa totemica dei nostri servizi segreti – fu coronato da successo ma vennero fuori i nomi di un ufficiale di Marina che faceva parte della Corte Sabauda e di diversi personaggi di altissimo rango che orbitavano intorno a Benedetto XV: sicché quella che doveva essere pubblicizzata come la più gloriosa delle vittorie riportate dalle nostre forze armate al di fuori dei campi di battaglia, e ad esse addirittura superiore per il lutti che poteva aver risparmiato al Paese, si configurò come un pericolo letale per la sopravvivenza del Trono e della Tiara, e venne preso dalle autorità di allora il partito di silenziarlo.

Il motivo per cui, nell’estate del ’37, il principe Aimone era a Bagnoles, dichiaratamente, ‘per passare le acque’ e il barone Aloisi fu visto circolare dalle parti di Brest, a pochi chilometri da Bagnoles, era che bisognava impedire a qualsiasi costo a Carlo Rosselli di riesumare quella storia, con lo scopo di danneggiare irreparabilmente le istituzioni alle quali a suo parere si era appoggiato il regime fascista: cosa che, fra l’altro, si evince, volendo, facilmente, anche dalla piega che assunsero, all’indomani del delitto, sia in Italia che in Francia, tre diverse inchieste giudiziarie, e dal tenore dei tentativi operati anche dal Vaticano per cercare di boicottarle. Ciano, nel cast entra solo di straforo, come membro di una famiglia che con l’aristocrazia romana legata alla Santa Sede era culo e camicia e che aveva buoni rapporti con alcuni individui implicati negli affari di spionaggio da cui aveva preso le mosse l”impresa di Zurigo’,

Se avessi altro spazio e altro tempo per insistere su questa traiettoria , sarebbe forse il caso di sottolineare come nel poligono di tiro di Verona, Mussolini, senza più i condizionamenti che gli provenivano dalla Corona e dal Vaticano, si fosse sbarazzato – applicando involontariamente le regole del contrappasso, evocate in modo improprio da altri, in altre occasioni – di due persone, Galeazzo Ciano ed Emilio De Bono, che avevano trasferito sul suo conto i debiti morali contratti da loro, uno per la complicità avuta con gli assassini dei fratelli Rosselli, e l’altro per averla avuta con i sicari di Matteotti. Capisco, però, che troppa storia, tutta insieme e tutta vera, fa male, specie quando non ci si è abituati. Perciò chiedo scusa, e chiudo.

 

Immagine: https://www.thesocialpost.it/

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