Per capire quale razza di uccello sia il cuculo (un mariuolo, a dirla con Craxi) si deve evitare scrupolosamente il film di Milos Foreman. L’inebriante bellezza di un titolo errato. Il cuculo non fa il nido da nessuna parte. Non ne ha voglia. Non ne è capace. Sfrutta quello costruito da altri uccelli e ci fa cadere dentro un uovo, il suo, che viene amorevolmente accudito finché non si rompe e ne esce un pulcino, programmato geneticamente per curvare il dorso, a mo’ di paletta, e sospingerlo nella direzione di quelli nati dall’uccello ospite, che vengono catapultati giù dal nido, ed è questione finita.
L’ingegneria della truffa qui si sviluppa nei minimi dettagli, nell’uovo che è identico a quelli rilasciati dall’uccello abusato, e nella puntualità cronometrica con cui il piccolo usurpatore precede, nel nascere, i legittimi abitanti del nido, perché, assai più forte, possa buttarli di sotto.
La politica avrebbe parecchio da imparare dall’ornitologia se esulasse dai luoghi comuni, quelli per i quali esistono solo le aquile, gli avvoltoi, i polli, le colombe e gli allocchi, che si commentano da sé, e prestasse, invece, maggiore attenzione a certi fenomeni che non corrispondono, nell’immaginario collettivo, a nessun uccello, men che mai al cuculo, che rimane mestamente confinato nelle comiche di Stanlio ed Ollio, quando non sbuchi da dentro gli orologi di legno della Val Gardena, segnando l’ora.
Per il cuculo si è fatta un’eccezione. C’è molta riservatezza. Ai limiti dell’omertà. Una silenziosa teoria di uccellini alieni che fanno ciao con la mano mentre si avvicinano a Lampedusa a bordo di barconi scassati. Uccellini, mica tanto. Belli grossi e pasciuti. Sono arrivati. Hanno vinto. Tra poco li si vedrà, sempre in fila, schierati sulle sedie all’aperto di un bar che dissertano su quant’è grande il mare, o dispersi, uno qua e uno là, proni o supini, a scelta, sulle panchine della stazione, un monumento al libero arbitrio.
Ma questa è la versione ‘soft’ di un film che, nella sua versione più autentica, non contempla l’involontaria connivenza dell’uccello abusato, ma quella consapevole di un altro uccello, un organismo geneticamente modificato, che dice ma sì, faccia pure signor cuculo, a me delle uova che ho fatto io non me ne può fregare di meno.
Al confronto, il film di Milos Forman è Walt Disney. Non c’è gratitudine per l’ospitalità ricevuta, e questo già si sapeva. C’è l’accostarsi- con la mano, con gli occhi, con la bocca, con la mente – ad una realtà su cui avevano già fantasticato, da molto lontano, apprezzandone il luccichio, e che ora, da vicino, luccica troppo, abbaglia, mette a disagio, irride, schiaccia.
Trovandosi al centro della rotonda, c’è chi decide di uniformarsi, diventando ciò che non è – una caricatura – e c’è, al contrario, chi prende un’altra strada, percorrendo la quale è inevitabile che qualcuno si mostri nudo, si procuri una mannaia affilata e bruci qualche chiesa, non già per il piacere di farlo, ma perchè glielo ha ordinato una voce di dentro, chiamatela come vi pare.
Un’interpretazione meno satinata di questa strana storia di uccelli, di uccellacci e di uccellini è quella secondo cui non ci vengono da soli, ma ce li mandano.
Il cuculo – ferma restando la complicità dell’ospite e dell’anfitrione che mena vanto nel dichiararla – è il nome in codice di una grande coalizione che mette insieme l’Islam, le élite cosmopolite, i demiurghi dell’Alta Finanza internazionale, per quanto si faccia molta fatica a capire attraverso quali sistemi abbia tirato dalla propria parte l’ultimo dei successori di San Pietro, quel Bergoglio che parla di uguaglianza e di accoglienza con la stessa delirante compostezza di uno che si sia fatto un fiasco di Frascati alle due del mattino. Non si capisce, d’altronde, per mezzo di quali inconfessabili sotterfugi essi siano riusciti a piazzare ai vertici della loro filiale europea un Macron e una Merkel, dato che non basta per capirlo la congruità relativa di pochi dettagli, come l’essere andato a scuola dai gesuiti e l’aver lavorato per la banca Rothschild, quanto al marito di sua nonna, Macron. E l’essere sospettata di aver fatto qualche servizietto per la STASI, quanto alla Merkel.
La convenzione di Faro, ratificata giorni or sono dalla Camera, era la tessera mancante di un mosaico che, nel sancire l’obbligo per i Paesi dell’Unione di ‘stabilire procedimenti di mediazione atti a gestire equamente le situazioni dove valori contradditori siano attribuiti allo stesso patrimonio culturale da comunità diverse’, in realtà elimina ogni margine di mediazione tra una narrazione, tutta rose e fiori, quella dei rinnegati al potere, e il convincimento, ormai diffuso tra tutte le persone passabilmente normali, che non può esserci alcuna mediazione quando si parli di cultura, tranne che non avvenga tra una domanda e un’offerta che si equivalgono: in caso contrario, non c’è chi ci guadagna e chi ci perde, ma ci perdono tutti, l’armageddon, il ponte di Mostar e le rovine di Palmira spianate a colpi di cannone, altro che lo spaghettino di ‘Quo Vado’ interpretato dal vichingo.
Il fatto è che anche nello scrivere di queste cose, nel momento in cui le scrivo, avverto una spiacevole sensazione: come di un registro che pende, inesorabile, verso l’elzeviro, verso l’indugio pensoso, piuttosto che rattrappirsi e indurirsi nell’anatema. Come del tenore che si scopre soprano. Come di una piccola pistola a schizzo.
E questo, visto che si sta parlando di contaminazioni e di mediazioni, non è un buon segno.