Non riuscivo a capacitarmi di come la rivelazione fatta da Moro, di trovarsi “sotto un dominio pieno ed incontrollato”, suscitasse così tanti interrogativi in chi, pur essendo privo di particolari capacità intuitive, avrebbe dovuto attribuire priorità all’ipotesi che quel dominio, “pieno”, cioé esente da condizionamenti da parte di un soggetto esterno, ed “incontrollato”, nel senso che qualunque cosa lo riguardasse era ricoperta da uno strato di segretezza, potesse essere un’ambasciata. Il senso di quella frase mi apparve chiaro allorché, proprio in quei primi giorni del sequestro Moro, avevo intercettato il passaggio di uno degli articoli di “O.P.”, in cui, col suo solito stile, apparentemente elusivo e trasandato, della persona che era molto più informata di quanto desse a vedere, Pecorelli affermava di aver sentito dire che Moro si trovava in “territorio tecnicamente siriano'”.
Nel corso dei 55 giorni, Pecorelli accennò più volte al luogo di detenzione dello statista democristiano, facendolo coincidere con uno stabile, dotato di porta carraia, che sorgeva nelle vicinanze del “teatro di Balbo”, vale a dire nella zona del “ghetto ebraico” racchiusa tra le Botteghe Oscure e piazza dell’Ara Coeli. La copia di “O.P.” nella quale compariva la dicitura “territorio tecnicamente siriano” – troppo impegnativa per non avere indotto il suo autore a pensarci bene e a divulgarla con cognizione di causa- mi fu fatta inopinatamente sparire, e non sono più riuscito a recuperarla, trascorsi diversi anni da quel portento, nonostante ne avessi cercata una rovistando in tutte le emeroteche della Repubblica. Il fallimento di tale impresa, che si prospettava di primo acchitto quasi irrisoria, fu enfatizzato dal fatto che l’ambasciata di cui aveva parlato il direttore di “O.P.” si trovava, appunto, in piazza dell’Ara Coeli e che tale punto, nel congiungersi con altri punti, distanti, al massimo, tra loro qualche centinaio di metri, formava una specie di triangolo – simile a quello delle Bermude, una specie di buco nero – all’interno del quale, con l’eccezione di via Fani che stava all’altra parte di Roma, si erano susseguiti i passaggi cruciali del caso Moro:
1) il ritrovamento del primo comunicato delle cosiddette B.R. nel sottopasso di Largo Argentina, 2) il responso del celebre veggente olandese, Gerard Croiset, secondo cui la prigione di Moro era situata nel “ghetto ebraico”; 3) il sopralluogo in tale zona di due magistrati, Priore ed Imposimato, al primo dei quali fu inviata, unitamente ad un biglietto di auguri, una foto scattata dall’alto mentre erano all’opera, con lo scopo di dissuaderli dal portarlo a termine; 4) il cadavere di Moro abbandonato in via Caetani, e, 5) per l’appunto, l’indicazione del “territorio tecnicamente siriano” da parte di Pecorelli, cioé dell’ambasciata siriana che si affacciava sull’Ara Coeli.
Benché tutti questi elementi si incastrassero l’uno dentro l’altro, in un puzzle i cui contorni concedevano un margine assai risicato ad eventuali obiezioni, il fatto di non poter disporre del numero di “O.P.” che riportava la “dritta” dell’ambasciata mi trattenne dall’occuparmene subito, e a tale decisione contribuirono non poco sia il timore di essere duramente osteggiato dagli agiografi delle Brigate Rosse, come Sciascia o come Piperno (la geometrica potenza, e altre patetiche amenità), sia la preoccupazione di dover procedere da solo contro corrente, la rischiosa solitudine dell’albero del Teneré circondato dalla vastità del deserto.
La vigile attesa – quella che il cessato Governo predicava inizialmente agli ammalati di Covid – terminò solo nel 2012 allorché i documenti della presidenza del Consiglio che concernevano l’affare Moro furono trasferiti all’Archivio Centrale dello Stato e mi fu permesso di consultarli.
Dalla montagna, setacciata con la febbrile perseveranza del pioniere che cerca l’oro nel fango, spuntò un “file”, classificato come “Riferimento Siriano”, che confermava la rivelazione di “O.P.”, dispensandomi dall’inutile tentativo di scoprire dove mi fosse apparsa la prima volta: con tutta probabilità il numero della rivista che segnalava questo particolare era stato ritirato dalle edicole, e fu data la caccia a coloro che ne avevano appena acquistato una copia, ma non so concepire, per un difetto di fantasia, uno scenario più castigato.
Il combinato disposto di tutti i documenti custoditi nei sotterranei dell’EUR, nel riproporre la pista aperta da Pecorelli, ne delinea lo sfondo, facendo affiorare in superficie uno spartito completamente diverso da quello autorizzato e vidimato dai guardiani della “vulgata”. Riassumo. Eliminata la scorta e rapito Moro, il commando, composto da uomini della “Saiqa”, la formazione di osservanza siriana facente parte dell’OLP (quei baldi giovanotti dall’incarnato olivastro), si dirige verso il litorale imboccando l’Aurelia dall’Anulare (circostanza segnalata anche dall’onorevole Cervone nel suo libro sul caso Moro), per terminare la corsa in un punto della costa prescelto per l’approdo di un gommone veloce che dovrebbe prendere a bordo il prigioniero e farlo salire su di un mercantile battente bandiera cipriota, ma sotto comando siriano, che é stato individuato dai servizi israeliani alla vigilia del 16 marzo mentre stazionava al centro del Tirreno (ne parlò il giornalista Cappato di Giorni – Vie Nuove raccogliendo in Svizzera la soffiata di un agente dello Shin Bet). La ricostruzione del mosaico é ovviamente lacunosa ed imprecisa, laddove le pietruzze da rimettere al loro posto sono troppo piccole, l’anticamera della polvere. Pare, comunque, che il gruppo di fuoco di via Fani torni in Libano con un volo partito da Fiumicino e che l’interferenza degli israeliani convinca gli organizzatori a cambiare programma: non più la nave, ma la traduzione del prigioniero in un’ambasciata amica, nel quadro di un piano che non ammette la possibilità di sbagliare e che contempla per ogni singolo step una o più soluzioni alternative, sino forse alla lettera c e d.
Una telefonata anonima, raccolta dal Comando Generale dei Carabinieri, alle 21, 45, del 17 marzo, avverte che tra le ore 3 e le ore 4 (a notte fonda, in una città attanagliata dall’angoscia) passerà, preceduta da una FIAT 125 color bleu, per il lungotevere degli Inventori, in direzione centro, una Renault 4 color aragosta sulla quale é stato nascosto Aldo Moro. Non é da escludere che questa sia la prima volta per la macchina che arriverà da lì a due mesi al capolinea di via Caetani , ma ce ne potrebbe essere anche un’altra, esattamente il 5 maggio, ad appena quattro giorni dall’epilogo della storia, data in cui viene fatta menzione, da parte di “persona nota”, di una macchina sospetta, una Renault 4 rossa, della quale però, sul brogliaccio dell’Arma, il numero di targa, preceduto dalla lettera “N”, risulta coperto da una batteria di puntini: non si potrebbe mai capire se tale iniziativa rientrasse nelle consuetudini dell’ufficio o se l’omissione del numero sia avvenuta all’indomani della terrificante “sorpresa” di via Caetani. Fatto sta che dal ragionamento sui dati – dovendo considerare tali, sino a prova contraria, quelli ricavati dalla documentazione archivistica e da soggetti informati del calibro di Pecorelli – viene fuori che Moro finisce “sotto un dominio pieno ed incontrollato”, al centro di Roma – lo stridio dei gabbiani e il rumore delle carrozzelle che battono il lastricato – già dal terzo giorno dei 55 in cui rimane nelle mani dei rapitori (da qui il risvolto dei pantaloni che si é sporcato della sabbia nera del litorale, con buona pace di tutti coloro che hanno graziosamente abboccato all’amo di via Gradoli e di via Montalcini, il più banale e il più scontato dei diversivi, l’astuzia della preda che scava, intorno a sé, cento buche per confondere il predatore) e che non ci fu un’adesione plebiscitaria, sotto il profilo politico e morale, al lugubre girotondo che si snodò intorno al sacrificio di Moro: e ciò si evince anche dalla storia, raccontata nelle carte, di un misterioso folletto che provò invano, mettendosi in contatto col Vaticano e con l’ANSA mediante una telescrivente, a denunciare il ruolo della “Saiqa” e di altri elementi, segnatamente arabi, nel complotto internazionale, sponsorizzato da una parte dell’establishment italiano, che stava barrando con una croce e col sangue l’eresia del “compromesso storico”.
Di quella stagione, e del suo corollario fatto di processi e di commissioni caratterizzate da una sterile logorrea, rimane sul terreno – la sagra del copia/incolla – una distesa di libri, tutti uguali, e vi si può trovare con un po’ di fortuna anche il mio, intitolato “Ecce Moro”, che ineluttabilmente divergeva. Nella “cosetta” pubblicata dal redattore di un grande giornale del Nord venni citato, ma relativamente ad un passo del libro che non diceva granché: il mio nome scritto piccolo piccolo, che facevi fatica a leggerlo anche con la lente d’ingrandimento. Ti ridimensionano e ti chiudono all’angolo anche così.
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