Nel programma politico della Meloni niente brillava seriamente, tranne un unico punto davvero rivoluzionario per la derelitta politica italiana: l’introduzione del presidenzialismo.
Sotto questa dicitura si celava l’intento di una riforma del potere esecutivo che ne sleghi la stabilità dall’eccesso di parlamentarismo e correntismo (quantomeno un po’ ridotto dalla riduzione del numero di parlamentari ma comunque consustanziale alla struttura costituzionale vigente) così da poter legare il proprio agire politico ad un orizzonte temporale più lungo e conferire ad esso la legittimazione di una investitura popolare di modo che ad esercitare il potere fosse una persona che gli italiani, almeno in parte, avevano voluto ed approvato. In questo, e solo in questo, la Meloni aveva dato una grande speranza con la sua idea di riforma costituzionale in senso semi-presidenziale. Una riforma di questo tenore sarebbe stata in grado di influire non solo sulla forma con cui i politici italiani andrebbero a governare il nostro Paese ma anche sulla loro intrinseca statura e sostanza obbligando le parti politiche a schierare persone di qualità in grado di “vincere e guadagnarsi” quella posizione.
Dal crollo della “prima repubblica” (dove la stabilità partitica della DC bypassava il cadere come mosche dei governi lasciando inalterate le linee di politica interna ed estera) le poltrone su cui si sedavano i vincitori delle elezioni (e qui il verbo “vincere” suscita ilarità viste le leggi elettorali infami approvate negli ultimi tempi e la galoppante astensione) erano sempre più traballanti. Ciò andava a detrimento non solo della capacità di azione e programmazione dell’esecutivo ma imponeva un orizzonte politico di pochi anni se non pochi mesi, tanto alla successiva tornata elettorale la maggioranza “espressa” sarebbe stata diversa.
In un tale panorama ricattatorio, barcollante, patetico, divisivo anche sulle questioni più banali, per nulla serio, in cui nessuno sembra mai comandare davvero, la presidenza della repubblica ammantata di retaggio monarchico, dotata di prerogative uniche e con una stabilità sconosciuta nel contesto italiano, ha trovato praterie dove stabilirsi senza dover lasciare impronte digitali su atti ufficiali. Solo in rare occasioni tutto ciò emergeva con evidenza anche agli occhi dei più politicamente disinteressati, si può citare ad esempio l’esplosiva questione Savona durante la formazione del governo Conte I (grande occasione persa per stabilire un precedente fondamentale in cui il parlamento rimetteva al suo posto il presidente della repubblica quando esso la faceva fuori dal vaso in nome dei “mercati”) ma andando indietro si possono ricordare i moniti di Napolitano che sostanzialmente si potevano tradurre con “questo mi va bene così”, “questo non mi va bene così quindi cambiatelo” o “questo non mi piace non mandatemelo perché non lo firmo”, e con i Presidenti del Consiglio costretti a concordare i decreti con il Quirinale pena l’apertura di una crisi irreversibile per chiunque non fosse dotato di un eccezionale appoggio in piazza. Per non menzionare poi la sfilza di governi tecnici o meno calati dall’alto sulle teste degli italiani e guidati da persone che mai avrebbero raccolto il sostegno elettorale per ascendere a tale ruolo.
Si è dunque venuto a creare un presidenzialismo informale e spurio quindi perfetto strumento nelle mani di chiunque non abbia bisogno di legittimazione popolare.
Dal punto di vista storico e geopolitico il guinzaglio che definire corto è un eufemismo dell’Italia nei confronti di Washington, Parigi, Bruxelles, Berlino e tanti altri non avrebbe consentito a qualunque politico italiano qualora anche investito di consenso popolare di avventurarsi in nessun tentativo di alcun genere in politica estera senza sbattere contro la muraglia Quirinale.
Dunque se non si possono coltivare le ambizioni meglio coltivare gli strumenti per realizzarle un giorno una volta ottenuta una maggiore autonomia (giorno che tra l’altro pare non lontanissimo visto la potenza declinante americana).
Ecco dunque giungere la Meloni a Palazzo Chigi, carica di “aspettative e speranze” almeno su questo punto. Fin da subito però la Meloni pare scendere a patti, sia con la sua maggioranza sia con l’opposizione. Quindi niente semi-presidenzialismo largo al premierato. Si arriva dunque al Consiglio dei Ministri del 3 novembre ed è finalmente possibile leggere il topolino che la montagna ha partorito.
Diciamolo subito la riforma è quantomeno “dilettantistica”. Non centra l’obbiettivo e coglie le criticità del sistema italiano risolvendole. Tuttavia almeno qualcosa di buono potrebbe portare. Analizziamone dunque il testo.
Il primo articolo della riforma modifica l’articolo 59 della Costituzione andandone ad abrogare il secondo comma ovvero: “Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Si toglie dunque il potere di nomina di senatori a vita (vecchio pallino del centro destra italiano) al Presidente della Repubblica riservandolo de facto agli ex detentori della suddetta carica. La prima norma transitoria della riforma stabilisce inoltre che “Fino al termine del loro mandato, i senatori di diritto a vita nominati ai sensi del previgente secondo comma dell’articolo 59 della Costituzione restano in carica”. A questi lidi non sono mai piaciuti i senatori a vita, specialmente quando votavano la fiducia o la sfiducia ai governi. Personalmente ritengo che esistano abbastanza croci d’onore, cavalierati e altre onorificenze della repubblica più che sufficienti per onorare un cittadino illustre. Quindi se non vi saranno più senatori a vita come Liliana Segre o simili non penso che mi vedrete versare lacrime.
Il secondo articolo articolo della riforma interviene sul primo comma dell’articolo 88 della Costituzione sopprimendo le parole “o anche una sola di esse” in merito allo scioglimento delle camere. Si ricordano solo tre casi (nel 1953, nel 1958 e nel 1963) in cui una sola camera è stata sciolta ma soltanto per motivi tecnici. Tali scioglimenti, infatti, avevano lo scopo di far svolgere contestualmente le consultazioni elettorali di Camera e Senato la cui durata era diversa, cinque anni per la prima e sei per il secondo. Poi intervenne la legge costituzionale n. 2 del 1963 che equiparò la durata delle due camere, senza però modificare il citato articolo 88. Non si rinvengono invece precedenti dello scioglimento di una sola camera per motivi politici. Insomma una modifica quasi superflua.
È però con il terzo e quarto articolo che la riforma entra nella materia del contendere.
All’articolo 3 si va a modificare l’articolo 92 della Costituzione, sostituito dal seguente: “Il Governo della Repubblica è composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni. Le votazioni per l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere avvengono tramite un’unica scheda elettorale. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio assegnato su base nazionale garantisca ai candidati e alle liste collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri il 55 per cento dei seggi nelle Camere. Il Presidente del Consiglio dei Ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura. Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei Ministri eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i Ministri”.
Di cose da dire ce ne sono tante. Innanzitutto molto meglio sarebbe stato istituire un sistema di elezione a doppio turno in cui in assenza di un candidato che abbia ricevuto il 50%+1 dei voti, i due maggiormente votati al primo turno si andrebbero a sfidare in un ballottaggio, dando dunque carattere di autentica legittimazione popolare alla carica. Legare poi l’elezione del Presidente del consiglio ad un “lista” rischia di creare Presidenti del Consiglio votati magari dal 20-25% della popolazione. Ancora più demenziale e per gli stessi motivi il concedere il 55% dei seggi alla lista del Presidente del Consiglio, già si odono gli strilli degli sconfitti petalosi del PD, per una volta a ragione, che si vedrebbero assegnare la maggioranza in parlamento a chi ha preso il 20% dei voti (cosa scandalosa quando non succede a loro). Molto più sensato sarebbe stato costituzionalizzare un sistema maggioritario assegnando alla lista del PdC un premio di maggioranza. Assolutamente necessario per provare a centrare l’obbiettivo di una tale riforma ovvero rafforzare la figura del Capo del Governo sarebbe stato conferire ad esso il potere di nomina e revoca dei ministri che invece viene lasciata in capo al Quirinale, non sopprimendo dunque tutti quei giochetti che caratterizzano la formazione di ogni nuovo esecutivo.
Infine l’art. 4 della riforma va a modificare l’art. 94 della Costituzione apportando le seguenti modifiche: A) Il terzo comma è sostituito dal seguente: “Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non venga approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche quest’ultimo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere.”; B) dopo l’ultimo comma è aggiunto il seguente: “In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio, il Presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare eletto in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha chiesto la fiducia delle Camere.”
La modifica A sembra buona quantomeno nell’intento di scongiurare la formazione di “governi tecnici per l’approvazione della legge di stabilità e guidare il paese fino alle nuove elezioni” i quali sistematicamente rimangono in carica più del dovuto. La modifica B a parere di chi scrive restringerà l’area dei complotti alle spalle del PdC da tutto il Parlamento al solo suo schieramento. Interessante però il passaggio in merito all’attuazione delle dichiarazioni e degli impegni presi durante la richiesta della fiducia. Potrebbe dare continuità all’azione del governo quantomeno.
Infine l’ultimo articolo della riforma riguarda le norme transitorie. La prima, riguardante i senatori a vita la si è già vista, la seconda recita: “La presente legge costituzionale si applica a decorrere dalla data del primo scioglimento delle Camere, successivo alla data di entrata in vigore della disciplina per l’elezione del Presidente del Consiglio dei Ministri e delle Camere”. Quieto vivere con Mattarella o tempo fisiologico per far digerire le modifiche dopo un eventuale referendum vinto dai favorevoli?
A parere di chi scrive questa riforma corre almeno quattro rischi: inefficacia, imboscate della Lega (in nome di dell’autonomia e del federalismo) o di Renzi (in nome di qualunque cosa convenga al senatore di Rignano) durante la sua approvazione, modifiche in parlamento che la rendano invotabile ed infine la sconfitta in un referendum confermativo.
Si starà a vedere, certo sovviene alla mente il detto “Chi ben comincia è a metà dell’opera”. Qui non si è cominciato bene.
Lorenzo Nucci