Sarebbe stato meglio che la formula ‘c’era una volta’, il badge che si usa per entrare negli anfratti magici del passato, servisse ancora come introduzione di questo articolo. Purtroppo, il passato scorre impetuoso verso il presente piuttosto che volgere dalla parte opposta per adagiarsi stecchito nel sarcofago dell’oblio. I seguaci di Grillo – un comico, non un ingegnere o un medico (sarebbe stato troppo banale) – nel portare, come promesso, il loro attacco alle istituzioni, non sono riusciti solo nell’impresa di favorire – loro, i portatori della buona novella – l’ordinata decantazione del passato, ma ne hanno dissotterrato le spoglie e le hanno riportate in vita facendole sfilare alternativamente, ora sul palcoscenico della Camera, ora su quelle del Senato, una volta addirittura su quello di palazzo Chigi. Volturara Appula. Già il nome, mi si consenta. Lì nacque Demostene Due, così detto per avere imparato a rendere fluida la favella masticando dei sassi, solo che a differenza del grande oratore greco, l’avvocaticchio si é dimenticato di averne un paio che gli girano nella bocca, o forse ci ha preso gusto.
Per chi non si é mai trovato in queste condizioni é difficile capire quanta sofferenza procuri il dubbio se ci si debba mettere a piangere o sbellicarci dalle risate: nel prendere atto che la recente iniziativa di ricattare Draghi, senza peraltro la menoma intenzione di farlo cadere per tutelare l’accesso al vitalizio da parte della ciurma grillina, gli é stata suggerita da due inveterati primattori, adusi a trafficare nei cubicoli del Palazzo, tale Rocco Tigellino, noto per essere stato scritturato illo tempore come inquilino della Casa del Grande Fratello – la punta di diamante della cultura televisiva italiana – e per essere stato stampato in compagnia di figurine muscolose sulla copertina delle più quotate riviste internazionali, e da tale Taverna, la quale aveva imparato a cimentarsi nelle più aspre battaglie della vita e della politica, sui banchi di una famosa Università informale, quella del Quarticciolo: nessuna difficoltà nel ripetere il mantra brevettato dai geni della propaganda pentastellata, vaffancuuuuulo, con la ‘u’ lunga come la frenata di una macchina da corsa andata a sbattere sulle transenne, e ‘limortacciloro’ in tutte e cinque le declinazioni.
Mentre scrivo, la vista mi si appanna senza che riesca a realizzare quale sia la remota scaturigine delle lacrime. Il rischio é quello di aprire la cataratta dei refusi, tanto più che dalle tinte rosa del burlesque, coi suoi rotondi incarnati, si passa, tra una dissolvenza e l’altra, ai tenebrosi chiaroscuri del Grand Guignol, dove ci si imbatte nel ghigno traverso di Mario Draghi, ‘il vile affarista’, stando alla crudele definizione appioppatagli da Cossiga (ma presidente, ma presidente….), al quale, contravvenendo ad una delle regole più importanti degli statuti internazionali – che impone la riservatezza quando ci sarebbe, altrimenti, indebita intromissione negli affari di un Paese terzo – sono arrivati, nel pieno di una crisi magistralmente simulata almeno da lui, il sostegno della vicepremier dell’Ucraina, che lo ha esaltato come l’amico principale del suo Paese in guerra con la Russia (facendoci scivolare ancora più a fondo in un conflitto che non é il nostro e che ci arriva addosso, dietro la nuca, come un boomerang lanciato da mister Bean), nonché l’affettuoso incoraggiamento a non mollare da parte di Biden. Benchè la Galilea fosse una colonia romana non risulta che l’imperatore Tiberio interferisse nell’azione di governo di Erode più di quanto facciano l’establishment europeo e gli USA nei confronti delle vicende italiane: qualche tacca in più rispetto alla sfrontatezza di Kissinger negli anni dell’eurocomunismo e all’invasività della signora Clare Boothe Luce in quelli pieni di pane tosto e di ladri di biciclette nel nostro secondo dopoguerra. Rischiamo di ritornarci se il ‘vile affarista’, l’uomo della provvidenza, verso il quale si levano gli hurrà servili (con qualche timida eccezione) del Parlamento, continuerà a fare incazzare i tassinari minacciando di abbandonarli nelle grinfie di Uber; a spaventare i concessionari degli stabilimenti balneari con la liberalizzazione del settore ambito dai grandi gruppi stranieri; a ventilare la riforma del catasto, che comporterà l’incremento delle imposte sugli immobili, una pesante ipoteca sulla possibilità per i figli di conservare il tetto sulla testa ricevuto in eredità dai genitori, un regalo in salsa greca per le holdings di cui l’uomo della ‘Goldman Sachs’, l’aedo rauco del Mercato, é stato, ed é, un esecutore impeccabile.
Ad osservare la situazione col microscopio ci si accorge, se non si è né prevenuti, né ciechi, che le Istituzioni vacillano sotto il peso di una ributtante mediocrità, ma che non c’é il popolo, a meno che non lo si voglia scambiare per quell’infima percentuale di votanti che si reca alle urne per cercare di allungare – i ‘clientes’ dell’epopea romana catapultati nell’evo moderno – l’agonia del ‘sistema’, mentre gli altri rinunciano perché, attraverso una fitta concatenazione di episodi, hanno subodorato l’inganno perpetrato dal banco senza, però, essere riusciti a capire come funziona: carta vince, carta perde, ha perso. Principalmente in Italia, ma ormai a tutte le latitudini, si assiste, incalzati dallo schiacciasassi del Capitale, al declino delle cosiddette democrazie, il buco di una nota marca di caramelle, intorno al quale si sviluppa l’orgia della retorica, coi partiti che nell’essersi trasformati in mostriciattoli focomelici (la perdita preordinata di ogni punto di riferimento sul Territorio, ergo delle sezioni), sono diventati clubs privati, o per meglio dire dei clubs prive’, l’assenza licenziosa di qualunque legame con le pulsioni del ‘popolo sovrano’, uno di qua e l’altro di la’, ‘noi non ci conosciamo’, come nella scena del ministro in ‘Jonny Stecchino’.
Non scherzano neppure in America se é vero che, nonostante la democrazia e, quindi, delle certezze garantite dall’apparente partecipazione della gente comune alla gestione della ‘cosa pubblica’, dal cilindro delle elezioni presidenziali é venuto fuori un vecchio rimbambito a cui bisogna ricordare, quando sta per scendere dall’aereo, che é arrivato in Arabia Saudita, semmai credesse di essere ancora a Washington, e che leggerebbe ai propri ospiti, nella placida compunzione delle persone che non ci stanno più con la testa, il bigliettino, zeppo di oscenità e di improperi, che il responsabile del ‘gobbo’ ha scritto per la propria suocera, se volesse turlupinarlo.
Ora, é evidente che il significante e il significato non coesistono più nella parola ‘democrazia’ e che é ormai giunto il tempo per chiederci, indipendentemente dalla direzione da cui ci siamo incamminati e dalle caratteristiche del percorso che abbiamo fatto, se sia vero che certe democrazie, compresa la nostra, non siano altro che delle dittature truccate e se ci sia, al contrario, della democrazia sostanziale, sotto forma di accesso alle libertà primarie, quelle incompatibili col bisogno, in molti regimi, che vengono normalmente spacciati per dittature.
E’ molto contenuto il pericolo di dover fare dei distinguo a colpi d’accetta per quanto é chiaro, almeno qui in Occidente, il collasso della civiltà, che avviene in parallelo con la riduzione della democrazia a rito, a pura esteriorità, e questo dovrebbe dissuadere gli oppositori dal tentare di battere il banco usando le sue stesse armi, il voto, o soltanto il voto, senza ripristinare la piazza, che é il luogo storicamente deputato ad offrire al popolo che vi si raccoglie l’opportunità di misurare e di saggiare la propria forza: tranne che non si abbia paura dei burattini più di quanto ne incuta il burattinaio. Intanto, cominciamo dai fili. Una cosa per volta.
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