Historia: la prima Esposizione Internazionale d’Arte Cinematografica avvenne all’aperto sulla terrazza dell’Hotel Excelsior al Lido di Venezia dal 6 al 21 agosto 1932. Fu un mega successo per la neonata mostra, secondogenita di babbo Festival dopo la kermesse hollywoodiana di Mr Oscar ch’era del ’29. L’Espo lagunare perciò è la più antica d’Europa, seconda al mondo dell’arte filmica a testimoniare l’intuito del fascismo nel saper cogliere l’efficacia delle nuove forme di comunicazione (nel’37 verranno inaugurati il palazzo del cinema al Lido e a Roma la fabbrica dei sogni: Cinecittà). Quella sera del 6 agosto, alle 21.15, la prima proiezione fu il lungometraggio DR. Jekyll and Mr Hyde, col sonoro, regia dell’armeno Rouben Mamoulian, fu un’anteprima assoluta.
Gli incubatori della Mostra erano tre, il conte Giuseppe Volpi di Misurata, lo scultore Antonio Maraini et etiam Dio Luciano De Feo, chi erano costoro direbbe don Abbondio? Ci intriga il terzo da lungo tempo nella damnatio memoriae, ma autentico spirito organizzatore e promozionale dell’Esposizione. Romano classe 1894, avvocato, intuì le potenzialità enormi del cinema in campo pedagogico/educativo, a lui si deve la genesi dell’Istituto LUCE (L’Unione Cinematografica Educativa) già nel ’24, con l’obiettivo di promuovere l’alfabetizzazione d’un popolo che firmava a crocette. Sempre a lui, al tempo direttore operativo dell’IICE (Istituto Internazionale per il Cinema Educativo), è attribuibile il DNA internazionale della Mostra veneziana perché l’avvocato perseguiva, con lungimirante determinazione, l’obiettivo di dare alla settima arte visibilità a livello non solo nazionale ma mondiale. Dei tre moschettieri è rimasta traccia e coppe solo a Giuseppe Volpi, imprenditore, presidente di Confindustria e della Biennale, Ministro dell’economia, ecc. passato dopo il 25 luglio dalla camicia nera a quella rossa dei partigiani comunisti, forse per questo è rimasto a galla. Maraini fu scultore e critico d’arte definito poi “di regime”, anche lui romano, avvocato, post bellum zero commissioni, trascorse i suoi giorni nella casa fiorentina a sistemare il suo prezioso archivio privato.
Oggi a carpet riavvolto la 76° edizione della Mostra è passata senza epocali squilli di tromba, tappeto rosso magrolino di super star luccicanti (Brad Pitt, Meryl Streep, Catherine Deneuve, Johnny Depp), qualche supernova per riconoscimenti alla carriera ma fashion da storcere un tantino il naso.
La Giuria presieduta dalla regista argentina Lucrecia Martel ha assegnato il Leone d’oro al film Joker del newyorkese Todd Plillips, rivisitazione d’un cult dei fumetti qui rimasticato in psicoanalisi del professionalmente depresso = bang della follia criminale. Un film non per tutti, vietato negli USA ai minori di 17 anni per la virulenza di scene e sesso mesciate da un linguaggio trash; insomma tutte le furbe spezie che rendono appetibile il prodotto al botteghino. Un dottor Jekyll and Mr Hyde in versione clown, il male, si sa, è la seta pregiata della comunicazione, dai Tg al cine, Lucifero incassa assai più di S. Maria Goretti, è quel che conta per registi, sceneggiatori e produttori, palinsesti.
L’Italia era in concorso con quattro lungometraggi, temi più “impegnati”, si andava dall’evoluzione del brand mafia alla scalata sociale d’un marinaio analfabeta, Martin Eden, amante respinto dalla borghesia, che si crea scrittore autodidatta e “sfonda”, poi c’era l’applaudito Sindaco del Rione Sanità, trasposizione nella Napoli attuale dell’omonima opera teatrale di E. De Filippo, fino all’attesa dei barbari (Waiting for the barbarians) presi a mazzate per saggiarne la reale pericolosità. Linguaggi e tecnologie avanzate si innestano, tutto sommato, nell’humus del vecchio Neorealismo scavando nelle tematiche sociali certamente autentiche, nelle paure dell’oggi con le sue contraddizioni, ma sono temi dalla benedizione sicura per l’intellighenzia manicheo-progressista della critica nostrana, scelta furba, sicura salire sul battello rosso degli intellettuali senza tracimare in eresie o ribellioni, col rischio di beccarsi una fatwā.
Ne usciamo con la Coppa Volpi assegnata al giovane attore romano Luca Marinelli, star emergente, per la migliore interpretazione maschile legata a film Martine Eden di Pietro Marcello, rilettura del romanzo di Jack London del 1909, e con un Premio speciale della giuria al documentario La Mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco. Qui il bene della giustizia rappresentato da Falcone e Borsellino viene contaminato dal male della mafia, nel business sistem questo confondere i confini è purtroppo una tautologia perseguita dal brand del capitalismo, il Che lo combatteva ma le t-shirt col Guerrillero heroico di Korda divennero icone di mercato ingrassando proprio quel capitale.
Marchio unico per Antimafia e Mafia sul palco del quartiere Zen di Palermo con sul fondale un’immagine cult dei due magistrati eroi mentre sulla scena s’esibiscono cantanti neomelodici in odore di familiarità con Cosa Nostra. Riprendendo il commento acuto di MicroMega il film di Maresco sembra anticipare l’incontro amoroso M5S-PD dove “i puliti”, giustizialisti per antonomasia, si sporcano un tantino le animucce candide con quelli accusati da loro d’aver le mani sporche, così questi in fretta se le lavano alla fontana del Grillo quanto basta per sedersi al tavolo da pranzo. Il marchio capital anche qui funziona, due apparenti opposti, almeno fino all’otto agosto, copulano realizzando l’obiettivo global di fusione a freddo di destra (ma quale?) e sinistra. Beh il regista non pensava certo allo schiudersi d’incanto della margherita giallorossa però ha colto ugualmente nel segno, l’operazione del capitalismo ha fatto centro, assieme rossi, fucsia, fidel renziani con qualche si dei molliforzisti, un prodotto tutto nuovo, da vendere e bene sul mercato, un teatro dell’assurdo dove gli sputi son diventati baci appassionati in una camera nuziale tutta green. A guardia della porta contro i bruti barbari sovranisti ci spediranno il Colonnello Joll (Johnny Depp) sadico repressore nel “Waiting for the barbarians” di Ciro Guerra.