Anche stavolta le banche guadagneranno

 

Anche stavolta le banche guadagneranno

Il presidente del consiglio Conte e il suo ministro dell’economia Gualtieri, nell’annunciare il loro decreto a sostegno dell’economia in crisi per l’epidemia – decreto che peraltro non è stato ancora pubblicato e presentato al Parlamento, e quindi risulta ancora oscuro nelle sue modalità operative – hanno affermato che esso comporterà l’erogazione di risorse finanziarie per ben 400 miliardi di euro, suddivisi a metà tra le imprese che operano all’interno e quelle dedite all’esportazione. La cifra ovviamente avrà sorpreso l’opinione pubblica non bene informata anche perché corrisponderebbe a un quarto del prodotto interno lordo di un anno, ed evidentemente nel bilancio dello Stato questa cifra non c’è.

La realtà è molto più semplice di questa immagine stupefacente, perché non si tratta di erogazioni a fondo perduto da parte dello Stato alle imprese in crisi bensì di prestiti, ossia apertura di credito, che le banche possono concedere, con diverse modalità, alle imprese richiedenti: senza nessuna istruttoria formale sulla solvibilità fino ad 800.000 euro, con istruttoria (e quindi possibilità di rifiuto o ridimensionamento della richiesta) per le cifre superiori. L’importo del prestito dovrebbe essere equivalente al 25% del fatturato registrato nel 2019, nell’ipotesi che il fermo produttivo duri appunto un trimestre (già ne sono passati due, da febbraio).

Ma ci si chiederà: ma se i prestiti li fanno le Banche, lo Stato che c’entra?

C’entra perché su quei prestiti (peraltro con modalità tutte da conoscere e analizzare) offre la sua garanzia nei casi di non solvibilità, che ha quantificata in 30 miliardi di euro in tutto.

Cosa vuol dire questo? Che questi trenta miliardi non escono oggi dalle casse dello Stato, anzi neanche esistono: vengono indicati in bilancio quale possibile onere da sopportare quando e se quei prestiti non vengono restituiti. E poiché è previsto che il rimborso di essi possa avvenire entro un tempo assai lungo fino a sei anni, evidentemente la mancata solvibilità non si realizza subito ma nel decorso del tempo.

In effetti, la “garanzia” del rimborso alle banche in caso di mancato rimborso dei prestiti da parte delle imprese si può configurare come una specie di polizza di assicurazione, il cui “premio” è a carico  dello Stato, tant’è vero che si è preso come modello il funzionamento della “SACE” (Società assicuratrice per i crediti all’esportazione) di proprietà pubblica (attualmente è controllata dal Ministero dell’Economia dopo un lungo “braccio di ferro” con quello degli Esteri che la voleva sotto la sua vigilanza; in passato, molto più correttamente, era dipendente dal ministero per il commercio con l’estero, ora assorbito proprio dalla Farnesina).

Però, come tutte le assicurazioni, non è detto che la copertura diventi operativa: nell’ipotesi che le imprese rimborsino regolarmente le somme ricevute magari a seguito di una ripresa della produzione, come spesso avviene dopo le crisi, quell’accantonamento governativo rimarrebbe inutilizzato in tutto o in parte.

Nel frattempo, agiscono le banche. Le quali, se sono disponibili a concedere quei prestiti soprattutto a clienti che già conoscono, non è detto che lo facciano gratis né sembra che il decreto governativo se ne assuma i costi: ci saranno certamente spese per le istruttorie, quando servono; gli interessi passivi i quali, anche se minimi e “calmierati” grazie a qualche accordo con l’ABI, comunque dovranno essere calcolati; e poi altre minime spese per esempio sui bonifici effettuati a valere sul prestito erogato, e via dicendo.

Insomma, pur ammettendo le buone intenzioni del governo il quale, non avendo disponibilità di mezzi, ha dovuto fare appello all’intervento delle banche impegnandosi solo alla garanzia (che ha anche un valore psicologico, non lo nascondiamo) è altresì vero che qualche guadagno le banche, da questo giro di denaro – si parla appunto di 400 miliardi di euro! – indubbiamente lo ricaveranno: basti pensare solo all’interesse dell’1% all’anno, sono quattro miliardi. E poiché le banche italiane sono ormai non solo tutte private ma anche di proprietà straniera (come la Banca Nazionale del Lavoro e altre minori), i loro utili non affluiranno allo Stato ma andranno in altre direzioni.

Nelle crisi, come si sa, c’è sempre qualcuno che ci guadagna: e sono sempre i soliti…

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