La crescente presenza delle multinazionali in Italia

 

La crescente presenza delle multinazionali in Italia

Il recente caso della storica industria dolciaria italiana “Pernigotti”, a suo tempo divenuta proprietà di un’impresa turca (!) che ora ne ha deciso la chiusura provocando la protesta dei dipendenti, dei sindacati, degli Enti locali e l’interessamento del governo (peraltro finora infruttuoso) ha attirato nuovamente l’attenzione sul comportamento delle imprese straniere divenute proprietarie di imprese italiane che molto spesso, a loro discrezione, decidono di smettere la produzione o drasticamente ridurla nelle quantità e qualità.

 Per singolare coincidenza, a ridosso di quell’evento l’ISTAT ha reso noto lo scorso 9 novembre un rapporto sull’attività delle multinazionali estere in Italia, riferito all’anno 2016.

È risultato che a quella data esse controllassero 14.616 aziende italiane con un incremento di 609 unità rispetto all’anno precedente, ossia del 5%.  Esse incidono nei comparti dell’industria e dei servizi per il 7,9% degli addetti, il 18,3% del fatturato, il 15,1% del valore aggiunto e il 14,4% degli investimenti.

 Inoltre contribuiscono per il 27% all’export di merci e per il 46,5% per gli acquisti, e gli scambi infragruppo sono del 45,8% per le esportazioni e per il 63,8% per le importazioni. Questi dati sono particolarmente significativi perché dimostrano come le aziende italiane di proprietà estera acquistino prodotti dalle imprese loro consociate, evitando di farlo con imprese italiane che magari hanno a disposizione lo stesso prodotto. Ciò è certamente ovvio: però ne risulta un danno all’indotto italiano e la conseguente occupazione, oltre alla perdita di valuta per le importazioni, non compensata dalle esportazioni. Va poi considerata l’importanza dei brevetti e della ricerca: acquisendo imprese italiane, la multinazionale s’impossessa dei brevetti e dei risultati delle ricerche per sfruttarli in altri Paesi, facendo perdere risorse economiche e spazi occupazionali in Italia.

 È bene però dire che anche le imprese italiane hanno filiali e affiliate all’estero, con 22.907 controllate, che impiegano 1.700.000 persone. Però questa situazione è in regresso perché negli ultimi anni si è realizzata una diminuzione sia degli addetti che del fatturato: a nostro parere, questo è un indice del fatto che la rinomanza del “made in Italy” induce i concorrenti ad acquisirne le filiali o le controllate situate all’estero, oltre che quelle situate in Italia.

 Infine, è importante rilevare come la propensione italiana all’investimento all’estero è in aumento solo per i gruppi industriali di grande dimensione: ciò in quanto le piccole e medie imprese, che sono la prevalenza dell’attività economica italiana, non hanno la forza economica, le capacità manageriali e gli aggiornamenti tecnologici necessari per espandersi all’estero. Ma anche questo fatto dimostra ulteriormente che le PMI italiane sono certamente la forza, ma anche la debolezza, del nostro sistema industriale.

 In conclusione, si può affermare che se è vero che la globalizzazione comporti la presenza reciproca di imprese presenti in più Paesi originando appunto ciò che si chiama “multinazionale”, è altrettanto vero che il meccanismo va regolamentato soprattutto per quanto riguarda i marchi storici e gli addetti.

L’Italia, che ha una forte presenza di produzioni caratteristiche, deve stabilire delle norme apposite nei casi di acquisizioni da parte di imprese straniere che prevedano vincoli alle successive alienazioni, tutela del marchio e della qualità della produzione, mantenimento dell’occupazione ai livelli preesistenti. A tal fine, si dovrebbero chiedere all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e all’Unione Europea deroghe alle normative internazionali ovvero ricorrere a misure protezionistiche come intende fare, per lo stesso motivo, il presidente americano Trump.

 Ricordiamo poi che esistono nella Costituzione (I^ parte) gli articoli 41-42-43 che prevedono l’intervento dello Stato nella proprietà privata con possibilità anche di trasferimento a “comunità di lavoratori”. Norme ereditate dalla legislazione corporativa fascista, quasi mai applicate, ma che sono tuttora valide.

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