La “mina sociale” della socializzazione
Questa settimana di ricordi (tragici) della fine della guerra in Italia nel 1945, ci portano a ricordare un episodio che è sempre volutamente ignorato nelle cronache della “radiosa giornata” del 25 aprile 1945. Quello stesso giorno, infatti, il primo decreto emesso dalle neo-costituite “autorità” del Comitato di Liberazione Nazionale stabiliva l’annullamento della legge, emanata il 12 febbraio 1944 dalla Repubblica Sociale Italiana, con la quale s’istituiva la cosiddetta “socializzazione” nelle principali imprese.
Sembrerà singolare che quel “Comitato” – composto da esponenti politici comunisti, socialisti, cristiani ispirati dalla dottrina sociale della Chiesa e dal “Codice di Camaldoli” – abbiano voluto sopprimere un istituto che rafforzava i diritti dei lavoratori: ma non c’è da stupirsi, perché l’abrogazione era motivata dal fatto che quella legge smontava e neutralizzava la concezione socialcomunista della “lotta di classe” e della conflittualità permanente all’interno delle aziende, dando nel contempo un ruolo decisionale e la dignità paritetica con l’imprenditore alle maestranze (come allora si chiamavano, rendendo omaggio alla loro specializzazione, quelle che poi verranno definite spregiativamente “masse operaie”). Si trattava, in effetti, di una vera e propria “rivoluzione” nei rapporti di lavoro.
Ma oggi, a distanza di 73 anni dalla sua abolizione, qual è la situazione di quel principio giuridico?
Cominciamo col dire che la frettolosa abrogazione del 25 aprile venne subito indirettamente e parzialmente ripristinata nella Costituzione Repubblicana che all’art. 46 prevede appunto “il diritto dei lavoratori a partecipare alla gestione delle aziende”. Ciò nonostante, ciò non è mai stato applicato legislativamente, proprio per l’opposizione delle forze sindacali e politiche rimaste ferme agli schemi ottocenteschi del lavoro sanciti da quell’abolizione del 1945, che è stata in effetti una restaurazione del ruolo egemone del capitale.
Ma oggi, con la globalizzazione che avanza inesorabilmente eliminando progressivamente le tutele sociali e nazionali costruite in Italia a partire dal 1923 (quando fu istituita, per la prima volta in Europa, la regola della giornata lavorativa di otto ore insieme alle limitazioni all’impiego delle donne e dei fanciulli), sta emergendo con forza la necessità della partecipazione. Una necessità che non deriva soltanto dal riconoscimento di un ruolo ai lavoratori dipendenti – che, fra l’altro, oggi con l’automatizzazione e l’informatizzazione crescente hanno un ruolo determinante nelle aziende – ma anche dal fatto che un’impresa “socializzata” è più radicata nel territorio e nella Nazione, e non può essere chiusa o “delocalizzata” in un altro Paese, a danno dell’economia nazione oltre che del lavoro, senza il coinvolgimento decisionale delle rappresentanze dei lavoratori.
Nel frattempo, essa è stata in gran parte introdotta nelle imprese metalmeccaniche tedesche e in alcune esperienze italiane, ultima quella dell’impresa sarda di elaborazione dell’alluminio, l’ex-Alcoa. Inoltre, nei contratti collettivi aziendali – che si stanno diffondendo numerosi – si stabiliscono norme che attribuiscono ai lavoratori dipendenti diritti ad intervenire per la definizione dei programmi aziendali, ad avere integrazioni salariali basati sui risultati economici della produttività aziendale, a istituire forme complementari per la previdenza, la sanità, l’assistenza sociale con contributi aziendali, ed altro ancora.
Insomma, sia pure con decenni di ritardo dovuti alle resistenze ideologiche conservatrici di cui sopra, l’idea della “socializzazione” si sta diffondendo, a conferma che si trattava effettivamente di una “mina sociale” come era stata a suo tempo definita dai suoi ideatori e legislatori.