Le tasse dello sceriffo di Nottingham

 

Le tasse dello sceriffo di Nottingham

Lo sceriffo di Nottingham, nemico di Robin Hood, era sgherro ed esattore di Giovanni Senzaterra, usurpatore del regno. Il suo compito era assicurare il transito e il libero commercio nella foresta di Sherwood, impedire la caccia ai cervi, considerati proprietà reali. Il suo sporco mestiere consisteva nel rubare al popolo per dare ai ricchi. Assai simile è il comportamento del governo italiano attraverso il fisco. Nessuna demagogia, solo cifre e nudi fatti. A fronte di una modestissima diminuzione del carico fiscale a favore di pochi, troppo scarsa per migliorare la condizione dei destinatari, tutti gli altri, a cominciare dalle imprese pagano sempre di più.

Esiste tuttavia un’eccezione, un’isola felice di amichevoli accordi tributari al ribasso. Non parliamo dell’elusione fiscale, tanto largamente utilizzata dalle società di capitali, ma di un vero e proprio sistema di accordi con grandi contribuenti. Una sorta di cavalleresco gentlemen agreement con le multinazionali, se non fosse che ci costa almeno 10 miliardi all’anno, oltre alla beffa per i contribuenti normali, quelli che con il fisco non possono sedersi al tavolo a trattare. Si tratta di ben 78 imprese alle quali l’Erario, così esoso con tutti noi, ha accordato sconti pari alla cifra indicata. Si tratta dello 0,6 per cento del Prodotto Interno Lordo e oltre il 2 per cento di tutte le entrate tributarie dello Stato.

Intendiamoci, la concorrenza tra sistemi fiscali è insita nel mercatismo mondialista; le imprese vanno alla ricerca della maggiore convenienza e dispongono di sistemi di schermatura dei ricavi ben difficili da aggredire dai singoli Stati. Ma a che serve, allora, l’Unione Europea, se non è in grado di fare fronte comune, ma al contrario, opera in regime di concorrenza nei confronti dei giganti della tecnologia e della finanza, come dimostrano i casi dell’Irlanda, di Lussemburgo, di Malta e, nel settore delle delocalizzazioni industriali, l’intera area dell’Europa orientale. Non è dato sapere con precisione quali corporations si sono avvalse di accordi con l’Agenzia delle Entrate; certamente Michelin, Philip Morris, che produce tabacchi lavorati e dovrebbe essere quindi esclusa da benefici, Facebook, Amazon. Silenzio sugli altri e bene farebbe il nuovo Parlamento a pretendere trasparenza.

Siamo infatti dinanzi a uno dei mille scandali nazionali. Abbiamo controllato la nostra pensione: tra imposte statali, regionali e municipali, se ne vanno oltre 900 euro al mese. Con i dieci miliardi non incassati dai misteriosi grandi contribuenti, si sarebbe potuto diminuire significativamente il cosiddetto cuneo fiscale, ovvero la differenza tra il reddito lordo e quello netto degli italiani, gravato da elevati contributi sociali a carico delle aziende e dei lavoratori, oltreché dall’IRPEF e, per i lavoratori autonomi, dall’IVA. In Italia è di circa il 50 per cento, in costante aumento e supera di dieci punti la media dei paesi Ocse.

Senza dimenticare che se le imposte sul reddito di dipendenti e pensionati sono pesantissime, la pressione fiscale sulle imprese è oltre il 44 per cento. Secondo gli osservatori più seri, si arriva al 49 per cento, con le tasse locali e quelle indirette. Di che stanno parlando, dunque, i politici, sguatteri del potere economico e finanziario, nei loro conciliaboli post elettorali? Sanno che se entro l’anno non si trova una copertura di ben 15 miliardi scatterà in automatico un devastante aumento dell’IVA al 25 per cento che comporterà un calo dei consumi di almeno 23 miliardi, circa un punto e mezzo del PIL?

Ci permettiamo di giocare anche noi con le cifre, invitando il governo entrante, se ce ne sarà uno, ad abolire gli sconti accordati ai giganti multinazionali, tenere in cassa i cinque miliardi per finanziare l’invasione di stranieri, chiedere agli Stati Uniti di pagarsi le spese, se vogliono cento basi e 15.000 uomini di stanza sul nostro territorio, richiamare in patria i soldati impegnati nei cinque continenti in funzioni di supporto agli interessi statunitensi ( altri due, tre miliardi), tagliare drasticamente le spese delle regioni, specie a statuto speciale, imporre tetti severissimi alla pacchia delle consulenze di enti territoriali e aziende pubbliche, dimezzare l’impressionante costo di Quirinale, Parlamento e Presidenza del Consiglio, obbligare i sindacati a presentare bilanci, ridefinire l’enorme platea di elusioni a vantaggio delle società di capitali, anziché accanirsi a ridurre le detrazioni fiscali delle famiglie e tanto altro ancora.

Avremo forse un governo di scopo, o del presidente, un esecutivo tecnico o qualche altra diavoleria gradita ai mercati. Qualunque soluzione esca dal fertile ingegno bizantino del sistema politico, tutto continuerà come prima, nonostante l’elettorato esiga un profondo cambiamento. Ma i Giovanni Senzaterra di Bruxelles, Francoforte e Wall Street non vogliono, spalleggiati dagli scherani domestici. Neutralizzata una volta ancora la democrazia rappresentativa, continueranno i governi dello sceriffo di Nottingham, deruberanno ancora la nazione italiana, Robin Hood non è all’orizzonte, la collera popolare non esplode. Vincono loro, molti miliardi a zero.

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