Orario continuato, sette giorni su sette

 

Orario continuato, sette giorni su sette

Le similitudini tra il comunismo e il liberismo ipercapitalista si fanno sempre più sinistre. Nel periodo di Pasqua si è riaccesa la polemica sull’apertura festiva di negozi, centri commerciali e altre attività. L’URSS aveva creduto di risolvere il problema nel 1929 attraverso una riforma del calendario su cinque giorni, tutti lavorativi, distinti per numero e, nella giornata, tempi di lavoro ciascuno con un colore diverso. L’obiettivo dichiarato era quello di consentire la produzione a ciclo continuo, 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno. Il vero scopo, tuttavia, era quello di distruggere l’idea di famiglia: il padre lavorava nel giorno 2 nell’orario azzurro, la madre nel giorno 4 giallo, i figli in altre fasce orarie o giornaliere. Occorreva creare l’uomo nuovo liberato da ogni identità, affetto, appartenenza. Il torvo esperimento comunista è fallito e fu lo stesso Stalin, dopo circa 10 anni, a mettere fine all’esperimento del lavoro a ciclo continuo.

Nell’opera di distruzione della persona e di palingenesi antiumana migliore successo ha il modello mercatista del capitalismo ultimo. I centri commerciali devono restare aperti sette giorni su sette, con orari estesi all’intero arco delle 24 ore, in nome del consumo, dell’incremento dei ricavi. Devoti al mito dell’orario continuato, tutti dobbiamo essere disponibili senza posa nelle uniche due funzioni che ci sono state assegnate dal Soviet Supremo: consumatori e lavoratori. In diversi quartieri funzionano supermercati aperti non solo tutti i giorni della settimana, ma per 24 ore, anche se non riusciamo a immaginare il progresso e la comodità (altra parola chiave della narrazione liberista) di acquistare prosciutto, smacchiatore e detersivo alle tre di mattina.

Vale la pena ricordare il passo del Vangelo di Marco in cui Gesù, dinanzi a una società, quella dei farisei, fatta di gesti, prescrizioni, divieti e formalismi, pronuncia una delle frasi più significative della sua predicazione: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato.” Il capitalismo ultimo non rispetta nulla, il nuovo signore del sabato è il Mercato, che se ne infischia del giusto riposo di chi lavora, ignora i simboli e le date, trita e travolge tutto sull’altare del registro di cassa.

Il Mercato non si arresta mai, dunque ha superato il Creatore che il settimo giorno riposò. I giorni festivi sono soltanto sinonimi di maggiore affluenza nei templi del consumo, da cui l’uomo di Nazareth scacciò i mercanti. Analogamente al comunismo, il mercato è diventato una visione del mondo, un obbligo, una religione con dei, riti, templi, fedeli. Che importa se i genitori non possono stare con i figli, se nessun momento è dedicato alla riflessione, alla sosta. Il calendario indica soltanto giorni di maggiore o minore affluenza dei compratori. Natale e Pasqua sopravvivono in quanto permettono un surplus di affari, mentre altre ricorrenze sono inventate di sana pianta, come San Valentino per gli innamorati, Halloween, le penose feste della mamma, del papà e simili.

Altre date simbolo vengono imposte per svuotare i magazzini dell’invenduto, come il Black Friday, il venerdì degli sconti. Ma essenziale è che non ci siano più giorni o periodi festivi. Chi si ferma è perduto, lo spettacolo deve continuare, il gregge deve accorrere alle funzioni profane senza mai fermarsi, pena la diminuzione dei profitti.

Se c’è una battaglia sacrosanta che i sindacati dovrebbero intraprendere è quella per restituire la domenica e le feste comandate (una volta si diceva così) al riposo, all’interruzione della corsa, alla famiglia, alla convivialità, ovvero agire senza scopo di lucro perché essere persone significa stare insieme, ridere e soffrire al di là del portafogli, delle merci, dei rapporti strumentali misurati in denaro. Ma è anche una battaglia della politica, della comunità, di ciascun individuo che ami la vita e sappia che il nostro destino non è lo scambio.

Bisogna sapersi fermare, e, come è stato per tanto tempo, accontentarsi del pane fresco sei giorni su sette, tanto più che qualcuno disse anche “non di solo pane vive l’uomo”. Il sabato è per l’uomo, non per il centro commerciale.

 

E’ probabile che nuove misure interessino a breve termine altri due settori chiave, l’elettronica e le calzature. The Donald, repubblicano anomalo, colpisce al cuore la globalizzazione; può vincere, ma può anche perdere.

In gioco non è più soltanto il destino di alcuni comparti industriali Usa e dei milioni di posti di lavoro ad essi legati, ma la stessa capacità degli Usa di rimanere una grande potenza manifatturiera. In questo senso, la politica di Trump è un’iniezione di realtà di fronte alla finanza, alle sue bolle, alle sue scommesse usuraie.

Ciononostante, l’Europa si ostina nel liberoscambismo dei perdenti. Se la reazione stizzita dei tedeschi a Trump è comprensibile- potrebbero rimetterci 100 miliardi- appare francamente ridicola quella dell’enfant prodige di casa Rothschild, Emmanuel Macron. Non stupisce il silenzio italiano; manca il governo, certo, ma soprattutto non abbiamo ancora capito chi la spunterà per saltare sul carro vincente. L’interesse nazionale è tuttavia chiaro: approfittare del vento che spira dall’America per far saltare i piani franco tedeschi.

Uno studio condotto da economisti di primarie università americane conclude che un libero scambio totale, con l’abolizione completa di dazi, tariffe, quote e divieti, avrebbe un effetto risibile sul PIL mondiale. L’aumento sarebbe dello 0,1 per cento, ma aggraverebbe in maniera pesante i costi di distribuzione e, aggiungiamo noi, provocherebbe ulteriori disastri ambientali, sociali e antropologici.

Ma che fa questa davvero vecchia Europa? Stretta tra l’ordoliberismo dell’Unione e della banca centrale più il tenace sogno di egemonia tedesca, scarsa di risorse naturali, afflitta da una drammatica denatalità, conosce un solo linguaggio. E’ quello al tramonto di un libero scambio forzato in cui sistemi economici, fiscali, produttivi, culturali assai differenti vengono costretti a convivere in una gabbia in cui il domatore (la finanza) è alleato con il leone (la Germania).

Con tutte le cautele e senza illudersi troppo, sarebbe il momento di un’Europa finalmente indipendente e, dentro di essa, dell’Italia. L’onda liberoscambista per la prima volta dagli anni 80 conosce una risacca, è il caso di approfittarne per riprendere le chiavi di casa. La secolare fobia antirussa di Gran Bretagna e Usa – il vecchio impero e quello in carica- dovrebbero consigliarci di guardare a Est.

Chiusa da oltre un quarto di secolo la lunga parentesi comunista, gli scricchiolii del liberoscambismo potrebbero determinare un doppio esito in chiave continentale, la riconfigurazione dei rapporti intraeuropei, riducendo il peso della Germania e l’infondata boria francese e, da parte italiana, la fine dell’interminabile dopoguerra da nazione sconfitta. La partita è all’inizio. 

Torna in alto