Positivi i dati sull’occupazione italiana
L’ISTAT ha reso noto lunedì i dati relativi all’occupazione italiana, con le consuete distinzioni tra andamento mensile, andamento trimestrale, andamento pluriennale. I dati sono positivi, perché dimostrano come l’indice di disoccupazione sia sceso al 9,9% tornando al 2012 (ossia prima che si verificassero gli effetti del governo Monti) mentre il numero complessivo di chi ha un qualche tipo di lavoro è addirittura il più alto dal 1977, raggiungendo il numero di 23 milioni e 387.000 persone.
Restano certamente disoccupati e inattivi, per un totale di 15.779.000 persone: da questa cifra, tuttavia, andrebbero a nostro avviso detratti i 4.317.000 giovani da 15 a 24 anni considerati “inattivi” i quali difficilmente a quell’età sono in cerca di lavoro perché – anche se non studiano – non hanno bisogno di lavorare essendo a carico delle loro famiglie. Resta quindi un “vuoto” occupazionale di 11 milioni e mezzo di persone, il quale però va interpretato.
Innanzitutto, ci sono le donne “inattive” per ben 6.280.000 persone, presumibilmente casalinghe o addette in qualche misura – non rilevabile statisticamente – alle cure domestiche della propria famiglia. Se è vero che è opportuno favorire l’occupazione femminile, soprattutto in alcune professioni ad esse più congeniali e comunque in base ai titoli di studio e specializzazioni professionali conseguite, è altresì vero che l’allontanamento totale della donna dalla famiglia comporta poi problemi di carattere sociale ed educativo. Comunque, sottraendo questo numero dagli 11 milioni e mezzo sopraindicato avremo un numero reale di inattivi di 5.250.000 persone circa: numero elevato, che tuttavia coincide pressappoco con quello dei poveri esistenti in Italia.
Però ci poniamo una domanda: se in Italia esistessero veramente tanti milioni di poveri in senso reale, non sarebbero essi visibili, almeno in alcune province considerate più sottosviluppate, anche in modo drammatico e magari violento? Non sarà che una parte consistente di queste persone, che si dichiarano “inattive” nel senso che neanche s’iscrivono ai centri per l’impiego per un lavoro e rientrano nella condizione di “povero”, sia quella che lavora “in nero” e che quindi sopravvive in tal modo?
D’altra parte, se le statistiche sul p.i.l. comprendono una componente (stimata) derivante dal lavoro sommerso, è evidente che esso in qualche categoria di catalogazione “occupazionale” effettuata dall’Istat debba rientrare, e a nostro parere è quella degli inattivi, depurata come abbiamo visto dall’incidenza dei minori sotto i 24 anni e dalle donne, prevalentemente casalinghe.
Fra l’altro, questa sensazione è confermata dal basso numero di richieste per accedere al cosiddetto “reddito di cittadinanza” che prevede il possesso di rigidi e controllabili requisiti sociali e patrimoniali. Evidentemente, molti preferiscono non esporsi facendo quella richiesta.
Un altro dato interessante emerge poi dai dati ISTAT, ed è quella della situazione degli occupati. Bene, sui 18 milioni di lavoratori dipendenti, ben 15 milioni, ossia l’83%, sono “permanenti”, ossia a tempo indeterminato, e il resto a termine.
Questo dovrebbe essere l’effetto di due interventi effettuati con il cosiddetto “decreto dignità”, ossia la legge n. 96 del 2018: la revisione del sistema dei buoni per i lavori occasionali, i cosiddetti “voucher”, che erano lievitati negli anni precedenti mascherando rapporti di lavoro reali; e la riduzione delle causali per poter assumere lavoratori a tempo determinato. Ciò ha comportato la trasformazione di quei rapporti di lavoro a tempo indeterminato (che infatti sono aumentati di 63.000 unità rispetto all’anno precedente), facilitata peraltro anche dal fatto che lo spauracchio dell’impossibilità assoluta di licenziamento è svanita con la modifica dell’art. 18 a suo tempo effettuata, sostituendo la riassunzione obbligatoria con un’indennità monetaria.
Ma, a nostro parere, la crescita occupazionale non è terminata: sia pure lentamente, nei prossimi mesi saranno in parte sostituiti i lavoratori che hanno accettato di divenire pensionati con la clausola cosiddetta di “quota 100”: la cosa è più rapida per i lavoratori privati, sarà alquanto dilazionata per quelli pubblici, ma comunque a fine anno si vedranno alcuni effetti positivi.
Tutto ciò merita commenti non meramente tecnici. Il primo si riferisce al fatto che l’Italia è meno malmessa di quello che la stampa “antinazionale” dipinge, con il desiderio inespresso di farsi governare da un “podestà straniero”, come affermava il non rimpianto Mario Monti; il secondo, al fatto che il popolo italiano è sempre stato, e resta, un popolo di lavoratori. Magari al limite della regolarità amministrativa, ma cercando sempre di “darsi da fare” per guadagnarsi da vivere, se non altro per dignità personale nei confronti della propria famiglia. Ed è proprio grazie al lavoro tenace e oscuro di tutte queste “formichine” che la nostra Nazione riesce sempre a superare le proprie crisi, economiche e sociali, politiche e finanziarie.
Basterebbe che i governi agevolassero questo lavorio, con la riduzione di tasse e contributi, con l’eliminazione di sperperi e corruzione, con una seria, avveduta e lungimirante programmazione produttiva, per dare stabilità al lavoro, sviluppo economico, rango di Potenza alla Nazione: che in passato l’ha avuto molte volte, ma è sempre risorta dopo le cadute e i tradimenti.