Reddito di cittadinanza: una riflessione senza pregiudizi [1]
Il reddito di cittadinanza è un tema centrale del dibattito politico. Nei prossimi mesi avremo una legge in Italia a compimento della principale promessa elettorale del Movimento 5 Stelle. E’ il momento per una riflessione seria. Il dibattito è aperto in tutto il mondo occidentale; trascuriamo quindi le questioni tecniche, relative ai destinatari, ai costi, ai probabili imbrogli che sporcheranno la concreta applicazione del nuovo istituto giuridico. Proviamo a centrare il dibattito attorno alle questioni di fondo.
Due premesse: la prima è che il reddito di cittadinanza (che altrove chiamano reddito universale di base) non è il balsamo di Fierabràs, l’unguento miracoloso che cura tutti i mali. L’altra è la constatazione che la politica sociale, uscita dalla porta del trionfo neoliberale e individualista, rientra dalla finestra del crescente disagio di massa. E’ un successo averla posta al centro dell’agenda politica, prova ulteriore della fine delle categorie del passato. Gli argomenti a favore e contro attraversano le vecchie appartenenze ideologiche e talvolta non tengono conto della realtà, quella, per utilizzare l’espressione di Jeremy Rifkin, della fine del lavoro.
Prima di addentrarci nell’analisi, abbiamo il dovere di esprimerci. L’opinione di chi scrive è un sofferto sì al reddito di cittadinanza, al di là delle modalità della legge che lo istituirà. Il nostro è – e ancor più sarà- il secolo della diseguaglianza nel reddito e nell’accesso alle tecnologie. Il cambiamento è già troppo grande e profondo per non prenderne atto, specie all’alba della nuova rivoluzione determinata dall’intelligenza artificiale, dall’automazione, con l’irruzione del robot a sostituzione di parti crescenti e sempre più elevate del lavoro umano.
I più ottimisti affermano che è il sogno dell’uomo vivere senza lavorare, lo dimostrano miti come Eldorado o Shangri-Là. Non siamo d’accordo, per l’immenso valore morale del lavoro, la dignità, responsabilità e consapevolezza che determina, il gusto e il piacere di guadagnarsi ciò che si ha, il senso del dovere che produce, la forza delle relazioni comunitarie che si stringono nel corso delle attività professionali, nei mestieri, nelle fabbriche e negli uffici. Nessuna conquista pratica e civile è maturata senza fatica, sforzo fisico e intellettuale. Il lavoro non può finire e non finirà. L’uomo non deve essere pagato per non lavorare, ma aiutato a estendere i propri orizzonti, a investire sul futuro senza paura. Si tratta di restituirgli in parte ciò che gli è stato tolto in termini esistenziali e renderlo partecipe della comunità cui appartiene. In questo senso, il concetto giusto dovrebbe essere il credito di cittadinanza.
Il dibattito in corso ci riporta alla centralità della dimensione pubblica, politica dell’uomo, a partire dall’istituzione Stato che, attaccata da varie parti, riprende un ruolo insostituibile come soggetto in grado di decidere e assegnare un reddito di base. Per distribuire, occorre prima creare la ricchezza e suddividere la torta molto diversamente da quanto accade da almeno trent’anni. Di qui la necessità di un’educazione volta al sapere, al sacrificio in vista di scopi, al lavoro, al risparmio, al rispetto per la legge, il ripristino di un senso di giustizia opposto allo schema della privatizzazione del mondo e della concentrazione dei redditi.
Gli scenari sono chiari: l’automazione distruggerà milioni di posti di lavoro, renderà obsolete centinaia di figure professionali, aumenterà ulteriormente il potere dei detentori delle nuove tecnologie e delle classi sociali in grado di implementarle e padroneggiarle. Studi attendibili parlano del 45 per cento degli impieghi a rischio entro un decennio. Sono cifre enormi, che riguardano non più solo i lavori fisici, ma colpiscono le professioni cognitive. Software, algoritmi e robot sono destinati a ereditare il lavoro dei contabili, dei notai, dei giornalisti, ma anche degli ingegneri, degli avvocati e persino dei medici. Milioni di persone vivranno, di conseguenza, senza redditi da lavoro, la precarietà sociale e esistenziale si diffonderà a macchia d’olio, la classe media, già in affanno, sarà pressoché azzerata.
Non potrà permanere, pena una intollerabile spirale di violenza e un regresso morale spaventoso, l’individualismo atomista e competitivo del presente. Forme di integrazione o sostituzione del reddito sono dunque inevitabili. Non si possono chiudere gli occhi e assistere al dissolvimento della società e alla polarizzazione della convivenza umana tra una minoranza di iperpadroni, assistita da un ceto tecnocratico, e tutti gli altri. Troppo facile la conclusione di chi considera il reddito universale di Stato l’opportunità per destinare il tempo alle attività che più aggradano, sportive, ricreative, creative o all’ozio.
Sull’altro lato della barricata sta l’oligarchia liberista, preoccupata che la società di mercato e consumo crolli, interessata a un reddito di base teso a mantenere in piedi il baraccone, evitando esplosioni di rabbia, violenza e messa in discussione del sistema. I più impegnati sono i giganti di Silicon Valley. L’ influentissima Y Combinator, la maggiore incubatrice mondiale di imprese innovative (le mitizzate start-up) distribuirà per un periodo di circa un anno una somma di almeno mille dollari al mese a cento famiglie, per poi analizzare i risultati. Il suo presidente, Sam Altman, è stato invitato all’ultima riunione del Club Bilderberg.
Un tentativo più complesso è stato finanziato dal governo finlandese (che peraltro non intende proseguire l’esperimento). Lo Stato ha versato con criteri casuali per un anno 560 euro mensili a duemila disoccupati di varie età, attivando un gruppo di controllo con uguali caratteristiche, senza benefici economici. L’esito è stato contraddittorio, nonostante l’appoggio diretto di personaggi come Elon Musk di Tesla (auto elettriche) e Mark Zuckerberg. I beneficiari non si sono comportati diversamente dagli altri nella ricerca del lavoro (ma il senso civico delle popolazioni nordiche è certo superiore a quello italiano), il reddito e le giornate lavorate non si sono granché discostati da quelli osservati nel gruppo di controllo. E’ risaltata però forte la diminuzione dello stress, dell’insicurezza sociale, della difficoltà a concentrarsi, minori problemi di salute, oltre a una maggiore fiducia nel futuro tra i percettori del reddito di base. La conclusione dei sociologi è che il programma non ha offerto prospettive di lavoro migliori, ma ha innalzato la qualità della vita degli interessati. Non è poco.
Il ruolo dei grandi attori tecnologici mondiali è decisivo: essi condividono una visione liberista e libertaria e ritengono il reddito universale lo strumento più adatto per diffondere tale stile di vita. Il trucco, perché di questo si tratta, è doppio. Da un lato, si pretende che i servizi essenziali, sanità, previdenza, istruzione siano in mani private (le loro…) e il reddito accordato ai cittadini per il mero fatto di esistere venga speso in quei settori, ovvero rientri nei loro bilanci. Dall’altro, vogliono che sia lo Stato, considerato un inciampo e un problema, a farsi carico di organizzazione e distribuzione.
E’ un mondo a misura di Uber. La piattaforma di trasporti privati a chiamata ha come collaboratori dei lavoratori autonomi che devono sostenere i costi, l’acquisto e mantenimento dell’automobile, le assicurazioni sociali e la responsabilità civile, disponibili nell’istante preciso in cui un servizio è richiesto: il modello just in time. I suoi banditori teorizzano che il sistema offra più libertà, poiché i collaboratori lavorerebbero quando vogliono, ma si tratta di menzogne. I redditi sono così scarsi che funzionano solo per procurarsi un reddito extra, un secondo lavoro. Per le piattaforme, finti datori di lavoro, veri caporali sanguisughe, il reddito di cittadinanza permette l’aumento di personale “flessibile”, cioè precario e malpagato. L’entusiasmo dei giganti è un investimento sui loro affari.