Reddito di cittadinanza: una riflessione senza pregiudizi [2]
Non sorprende l’identità di visione tra i vertici neoliberisti, i tecnopadroni e il progressismo politico. Il reddito di cittadinanza è materia troppo delicata per opporvi idee del passato o addirittura negare il problema. Piuttosto occorre “cavalcare la tigre”, accettare la sfida per cambiare il mondo, a partire da una domanda: che cosa succede nella percezione di massa, nel cervello di ciascuno di noi, se ci forniscono denaro senza chiederci nulla in cambio, soprattutto, è vero che non ci chiedono nulla in cambio, e ancora, quale potere, pubblico o privato, se ne farà carico, chi pagherà il conto, quale società e senso della vita emergerà?
Non possiamo dimenticare il massacro sociale, antropologico, esistenziale prodotto dall’alleanza tra progressisti in assenza di progresso e il piano alto del liberismo globale. Il reddito di cittadinanza può diventare il primo gradino di un’inversione di tendenza, a patto che non sia una graziosa concessione da parte dei padroni del mondo per tenere buona la massa e non si trasformi in meccanismo politico burocratico dei governi per ricattare una massa manovrabile di nullafacenti. Il principio irrinunciabile è che il lavoro rende liberi, nonostante la frase sia squalificata dall’uso che ne fece il nazismo. Liberi e titolari di dignità, pienamente membri della comunità non solo per il reddito che ne consegue, ma per la rete di relazioni che crea, significati, status sociale e personale, amicizie, solidarietà.
In più, il lavoro ci rende orgogliosi di saper fare qualcosa di utile, essere buoni operai, tecnici, medici, commercianti. La civiltà europea di matrice cristiana ha sempre attribuito un profondo significato morale e finanche spirituale al lavoro: pensiamo a San Josémarìa Escrivà de Balaguer, a Don Bosco, allo stesso San Giuseppe. Non possiamo trasformarci in generazioni di nullafacenti dedite al consumo, ergo ai vizi. Il rischio è grande. Possiamo però aiutare milioni di persone a trovare la loro strada con maggiore facilità, sottraendole a una vita da precari con la valigia in mano, in perenne competizione al ribasso, oppure all’arrivismo sfrenato. Il filosofo Slavoj Zizek, pur da una prospettiva neomarxista, avverte del pericolo del “sogno impossibile che il capitalismo faccia funzionare se stesso come un sistema socialista”, risolvendo a suo modo i problemi di disoccupazione e di consumo.
Ogni sistema liberale è intrinsecamente avverso a comunità e solidarietà. In particolare, i giganti di Silicon Valley non hanno altro scopo che contenere le minacce di una disoccupazione massiccia, mettere una sorta di cerotto – a spese altrui – sul modello di lavoro che stanno costruendo attraverso l’avanzamento dei progetti di automazione, intelligenza artificiale e robotica. Siamo alle soglie di un universo inedito, cui non si può guardare con le mentalità del passato, tanto meno con l’unico metro di giudizio della ragioneria dei costi. La transizione sarà delicata e complessa, e dovrà essere soprattutto antropologica.
In un futuro prossimo in cui la forza lavoro, sarà automatizzata o “uberizzata”, che ne sarà dell’uomo, quale posto avrà nella scala dei valori? Di sicuro, non esiste una risposta di destra e una di sinistra. Occorre ragionare con categorie più ampie. Proviamo a elencare qualche problema, partendo dalla sostenibilità economica. L’ OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo in Europa, è un pilastro di un sistema fatiscente, ma non ha torto affermando che non ha senso finanziarla con la parte dei bilanci già destinata alla spesa sociale. Aumenterebbe la povertà e obbligherebbe a nuovi aggravi del carico fiscale, che potrebbe schizzare del 30 per cento. La soluzione è quella di tassare i robot, poiché generano ricchezza al posto dei lavoratori umani.
Il robot ha solo bisogno di energia per sopravvivere, non si ammala, non sciopera, non conosce feste comandate; la sostituzione delle persone umane con “persone elettroniche” (la definizione già percorre i corridoi dei palazzi del potere) produce profitto. Una parte va redistribuito alla cittadinanza. Sembrerebbe senso comune, ma è difficilissimo accordarsi per tassare i giganti tecnologici, non sarà semplice mettere in piedi un sistema tributario basato sulla produzione, il possesso e l’utilizzo di robot e altri apparati elettronici sostitutivi della persona umana.
Inoltre, come si concilia il disprezzo per la sfera pubblica, la perdita di potere, funzione, prestigio dello Stato con la necessità di restituirgli una funzione centrale? E se la pretendessero per sé i produttori, gli investitori nell’intelligenza artificiale, i soliti noti della tecnica padrona? Per loro, unici a possedere immensi apparati di controllo, sarebbe facile organizzare un sistema di distribuzione di somme virtuali, magari ad uso elettronico obbligato. I soldi in uscita rientrerebbero immediatamente, anzi non li vedremmo neppure, poiché si tratterebbe di conti virtuali attraverso carte o microchip. Il consumo continuerebbe, privato dei pochi spazi di libertà reale che ancora permangono.
Perciò il dibattito sul reddito di cittadinanza deve porre al centro due soggetti attivi, le persone in carne e ossa, noi, e le istituzioni pubbliche, ovvero lo Stato, attraverso le strutture indipendenti e soggette a rendicontazione e controllo politico dedicate alla corresponsione del reddito. Manca tuttavia un convitato di pietra, l’unico di cui si tace: è la sovranità monetaria perduta. Un sistema internazionale fondato sulla menzogna del debito e sull’ emissione del denaro, cartaceo e scritturale, da parte del sistema finanziario, non può accettare l’esistenza di redditi universali, a meno di non farne oggetto di ulteriori ricatti.
La speranza, il cammello che passa per la cruna dell’ago, è il graduale recupero della sovranità monetaria da parte degli Stati, iniziando dall’istituzione di banche pubbliche in grado di finanziarsi alle condizioni di quelle commerciali, dunque anche di creare moneta bancaria (in Italia si tratta di circa mille miliardi l’anno!). Il dato ufficiale della nazione capitale dell’Impero, gli Usa, è impressionante. Al 28.07.2018, la Federal Reserve dichiarava 3.600 miliardi di dollari di moneta legale (banconote e monete, aggregato M0) e 15.500 di liquidità totale (MZM, money zero maturity), con l’80 per cento del circolante creato dalle banche ordinarie, come ammesso anche in Italia dalle stesse “autorità monetarie” (fonte: Marco Della Luna, Tecnoschiavi, Arianna Editrice 2019).
L’obiettivo finale è recuperare il potere sovrano di creare moneta, per attribuirne una parte ai cittadini come credito, in base alle intuizioni di Giacinto Auriti. Resta vero il paradosso di Ezra Pound, secondo cui dire che uno Stato non può perseguire i suoi scopi per mancanza di denaro è come affermare che un ingegnere non può costruire strade per mancanza di chilometri.
Purtroppo, le nostre sono verità travestite da sogni. La fase storica che viviamo, tuttavia, impone di tenere fermo il ruolo dello Stato come garante e agente fondamentale della sovranità, nonché della tutela dei suoi cittadini, quindi di attribuirgli il potere di restituire le enormi somme trasferite al sistema economico e finanziario. L’avanzata dell’automazione rende tale processo ineludibile, per non rendere antiquato, addirittura superfluo, l’uomo stesso.
Per questo, nonostante tutto, nonostante il pericolo di svalutare il lavoro e l’onesto guadagno, siamo favorevoli a forme di reddito universale. Non è che una modesta riappropriazione di ciò che è nostro. Non lasciamo il futuro della specie ai robot, ai padroni della tecnica e ai creatori del denaro.