Ridurre le ore di lavoro?

 

Ridurre le ore di lavoro?

Nelle scorse settimane è sorto un dibattito riguardo alla questione delle ore di lavoro, provocato da una proposta del governo finlandese, rimasta peraltro tale, di stabilire la giornata lavorativa a quattro ore. E si è discusso se era possibile e auspicabile introdurre questa proposta anche in Italia, e in genere in Europa.

A questo proposito occorrono fare alcune osservazioni.

La prima concerne proprio il Paese proponente, la Finlandia, la quale ha caratteristiche tutte proprie: è scarsamente popolata, ha un clima periboreale, ha molte risorse naturale e un reddito procapite alquanto elevato (50.000 dollari procapite contro il 35.000 dell’Italia). Quindi, in quel Paese forse quella proposta era possibile.

Ma, al di là di questo confronto, la questione certamente si pone relativamente al tipo di lavoro oggi esistente, anche perché in effetti le statistiche dimostrano come l’orario di lavoro si stia riducendo.  Lo ha attestato pochi giorni fa uno studio – sempre molto preciso – della “Confederazione generale dell’industria e artigianato” di Mestre, la nota CGIA: in esso si rileva che in dieci anni, dal 2008 al 2018, l’Italia ha perso 2,3 miliardi di ore di lavoro: però è da osservare che il lavoro dipendente dalle imprese è diminuito solo di 121 milioni di ore, mentre la massa – 2,2 miliardi – è ascrivibile al lavoro autonomo, ossia commercianti e artigiani sempre più superati ed eliminati dalla grande distribuzione e dalle produzioni di massa.

In effetti, l’intenso sviluppo tecnico, organizzativo, informatico e automatizzato che si sta manifestando (tanto da far parlare di una nuova rivoluzione industriale, la cosiddetta “industria 5.0”) comporta due conseguenze.

La prima, che i processi produttivi sono legati più alla velocità e alla capacità degli strumenti tecnologici impiegati che al tempo di attività del personale addetto il quale infatti è esso che deve uniformarsi al ritmo dello strumento; la seconda, che il costo del lavoro comunemente inteso (ossia, retribuzione e oneri diretti e indiretti connessi ai lavoratori) è in continua diminuzione come incidenza sul costo del prodotto finito o sul reddito d’impresa conseguito.

Ne consegue che una diminuzione dell’orario di lavoro sarebbe quindi possibile, dal punto di vista puramente economico.

Ma vi è un’altra questione da prendere in considerazione. Se l’impresa moderna, sia quella industriale che quella commerciale (pensiamo ai supermercati aperti 24 ore, o alla distribuzione di libri e altri beni effettuati da Amazon) o dei servizi pubblici (che anch’essi devono operare in misura permanente) lavora su un ciclo continuo dovuto anche al crescente impiego di strumenti informatici o automatizzati che certamente non hanno bisogno di riposo, è evidente che le persone addette agli strumenti o ai servizi devono operare su turni nell’intera giornata.

Si potrebbero così anche ipotizzare sei turni giornalieri, ciascuno di quattro ore, tenendo anche conto del fatto che oggi i posti di lavoro sono molto lontani dalle residenze e quindi ai turni lavorativi si aggiungono dalle due alle tre ore di viaggio.

Da questo punto di vista, pertanto, la riduzione dell’orario di lavoro a quattro ore giornaliere, divisi in turni, sarebbe possibile.

Resta peraltro un altro problema da risolvere: la retribuzione. Secondo l’attuale sistema, la retribuzione è legata all’orario di lavoro settimanale, anche se corrisposta mensilmente. L’eventuale riduzione dell’orario di lavoro dovrebbe comportare automaticamente anche la riduzione della retribuzione, causando quindi un impoverimento generale.

A questo proposito spesso si è proposta una specie di “tassa sui robot” per compensare quello che si perde in termini di occupazione, con aumento della spesa sociale per disoccupazione o simili (tipo “reddito di cittadinanza”) e per le contribuzioni previdenziali: però ciò va a vantaggio della spesa pubblica, e non del singolo lavoratore. Questo si potrebbe, a nostro avviso, ovviare trasformando la retribuzione come ora è concepita in una “quota di partecipazione” al reddito totale (e non agli utili) dell’impresa: insomma, stabilire – contrattualmente – quale debba essere la parte da riservare ai lavoratori “uomini”, vista l’impossibilità di stabilirla singolarmente, da distribuire secondo determinati parametri (qualificazione, servizio prestato, ecc.). Da tener presente a questo scopo che accanto ai lavoratori presenti fisicamente vi sono quelli che effettuano la loro prestazione da casa o in “itinere” (tutte le distribuzioni porta a porta di cibo e altro, in aumento).

Insomma, la riduzione dell’orario di lavoro – che di fatto sta avvenendo – non deve trovare impreparati governo e parti sociali, perché altrimenti non solo gli uomini saranno sostituiti da computer e robot, ma verranno anche sottopagati viste le scarse qualifiche richieste (la spinta verso l’immigrazione incontrollata e priva di qualifiche serve probabilmente anche a questo, in prospettiva: è facile addestrare chiunque a controllare l’andamento di una macchina).

La proposta finlandese ha avuto il merito di aver posto un problema che si presenterà con urgenza nell’immediato futuro.

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