Salario minimo e reddito di cittadinanza, due facce della stessa medaglia

 

Salario minimo e reddito di cittadinanza,due facce della stessa medaglia

La “triplice” sindacale ha iniziato gli incontri con Draghi per discutere (se le sarà consentito…) e varare il cosiddetto “Patto per l’Italia”. A parte la considerazione che questi colloqui si svolgono tra organizzazioni che non rappresentano tutto il loro ambito sia sindacale che imprenditoriale, anzi forse ne rappresentano una minoranza, rileviamo che uno dei primi punti in esame è quello, da anni ricorrente, del salario minimo da stabilire per legge a tutti i lavoratori.

Questa impostazione riemerge, come un fiume carsico, ogni tanto nel dibattito economico-sindacale e ha dei lontani precedenti simili. Il 24 gennaio 1975 Gianni Agnelli, allora presidente di Confindustria, e Luciano Lama, allora segretario generale della Cgil che influenzava anche gli altri sindacati, stabilirono di unificare la contingenza, legata all’inflazione, che allora veniva data in modo diversificato in relazione alle retribuzioni; inoltre, in quegli stessi anni fino alla svolta del 1980, la “triplice”, ossessionata dal delirio egualitario erede del “sessantotto”, stabiliva nei contratti aumenti in cifra fissa uguale per tutti. Queste misure erano state giustificate con la lotta all’inflazione, riducendo di fatto le retribuzioni: ma in realtà intendevano eliminare la meritocrazia e il desiderio di guadagnare di più impegnandosi sul lavoro in termini quantitativi e qualitativi, concetti ritenuti “borghesi” e  “reazionari”. Cessata questa tendenza, l’obiettivo di mantenere stabili le retribuzioni è riemerso negli scorsi anni ma da parte degli imprenditori i quali stanno sostituendo nei rinnovi contrattuali gli incrementi retributivi (che avvengono anche tramite i passaggi di categoria e gli scatti di anzianità, anch’essi ridotti) con il cosiddetto “welfare aziendale” il quale consiste nel predisporre tutele economiche o interventi a spese dell’azienda per esigenze straordinarie o particolari: dentista, analisi mediche e operazioni, acquisto prima casa, previdenza integrativa. Ma questo si rivela, nel tempo immediato, una beffa: se uno non si ammala, non deve comprare casa o va in pensione tra decine di anni, non usufruisce né dell’aumento retributivo né del welfare aziendale!

Adesso, sta emergendo la proposta di stabilire un salario minimo per legge, e il pretesto sono tutti i lavoratori precari che percepiscono paghe minime: l’esempio più ricorrente sono i “riders” e in genere i trasportatori, ma dovremmo aggiungere anche i praticanti giornalisti e gli addetti agli studi professionali che non vengono mai indicati.

Tuttavia, poiché queste categorie non dipendono dalla Confindustria né in genere sono aderenti ai sindacati, perché si propone quel tipo di salario?

A nostro parere, per due ragioni, una economica una sociale.

Dal punto di vista economico, è evidente come un salario stabilito per legge non abbia più bisogno di avere dei contratti collettivi di lavoro che ne stabiliscano la misura e le modalità. Ma ciò viola apertamente gli articoli 36 e 39 della Costituzione (elaborati, lo ricordiamo, sulla traccia della Carta del Lavoro del 1927). Infatti, l’articolo 36 stabilisce che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Se il salario è minimo, come si fa a stabilirlo in modo “proporzionato” all’attività che svolge? Se ne dovrebbe fare una casistica di centinaia di fattispecie diverse, quello che in effetti fanno i contratti. E, a questo proposito, ricordiamo che l’art. 39 afferma come i sindacati “possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Quindi, si parla di “categorie” che ovviamente sono diverse per attività, composizione numerica, capacità economica, competenze professionali. Ma si dice: il salario minimo è una base, poi con i contratti si fanno gli adeguamenti. In teoria è esatto, ma se la parte datoriale non rinnova o dilaziona il contratto, cosa succede? Resta solo il minimo?

Questa è la prima critica, dal punto di vista economico e soprattutto costituzionale: e sarebbe strano che i sindacati accettassero il salario minimo perché significherebbe l’annullamento della loro stessa ragione di esistenza.

Ma vi è un’altra osservazione, più socio-culturale, che va fatta. Con il salario minimo legale, diminuisce la volontà di agire per la retribuzione e conseguentemente l’associazionismo: in altri termini, si abituano i lavoratori, soprattutto quelli più giovani, ad accontentarsi di quello che prescrive la legge e – soprattutto – confidare nella buona volontà del datore di lavoro di dargli maggiorazioni, in cambio però di impegni lavorativi. Ciò ovviamente avverrebbe a titolo individuale, cioè ognuno avrà quello che il proprio datore di lavoro, e non un contratto valido “erga omnes”, discusso e combattuto, gli vuole dare. E’ un modo per stabilire una subordinazione psicologica e annullare la dignità di prestatore d’opera cosciente delle proprie capacità e dei propri diritti. Inoltre, c’è poco stimolo per il miglioramento professionale visto l’appiattimento salariale.

Sembrerà strano ma queste considerazioni si possono applicare anche al reddito di cittadinanza. Con questa misura, si disincentiva sia la ricerca e l’impegno lavorativo, sia la specializzazione e la professionalizzazione. A che serve studiare o imparare un mestiere anche qualificato se poi stando tranquillamente a casa si riceve un minimo vitale (e magari la differenza si ricava lavorando in nero)?

Anche in questo caso, avviene una subordinazione psicologica, che toglie la voglia di impegnarsi sia per sé stessi sia per la società: una subordinazione che avviene stavolta nei confronti dello Stato.

Poiché nulla avviene per caso, si possono trarre due considerazioni finali da questi fatti:

  1. non si ha nessun interesse per il miglioramento professionale e per l’impegno socio-culturale dei giovani, perché è più utile ridurli a soggetti dipendenti dalla volontà dello Stato e del proprio datore di lavoro, amorfi e lasciati attrarre dalla musica, dai divertimenti, dal sesso, dal tifo sportivo, dalla droga. Un giovane neutralizzato moralmente non diviene un potenziale contestatore o rivale dell’oligarchia dominante;
  2. la forza economica dell’Italia si è basata sull’inventiva, le capacità e l’impegno dei suoi lavoratori a tutti i livelli. Impedendo alle nuove generazioni di sviluppare e applicare le proprie potenziali capacità mantenendoli come polli o pecore d’allevamento soggetti alle volontà altrui, indirettamente s’indebolisce la potenza economica nazionale, cosa che fa comodo alle multinazionali e ai concorrenti europei.

Gli interlocutori di Draghi sono consci di questi aspetti?

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