Il gen. Wei Fenghe, l’equivalente della velletrana E. Trenta Ministro della Difesa senza stellette se non quelle del M5S, a due giorni dalla ricorrenza trentennale dei misfatti di piazza Tienanmen, ha dichiarato impavido che la repressione delle turbolenze politiche fu “una giusta decisione” in nome della stabilità del dragone rosso.
Ho in cornice sulle scale l’immagine simbolo di quella rivolta, un uomo in camicia bianca sfida, da cavaliere solitario, i carri armati, nessuno ne conosce ancora il nome, è rimasto un Unknown Rebel portato via dai militari poi di lui più nulla, evaporato, secondo il protocollo della trasparenza comunista. Ma sì, diciamocelo, era un povero folle, una reincarnazione di quell’hidalgo della Mancia anche lui col chiodo fisso di combattere i potenti, oppure un Wŭxià, eroe marziale della letteratura cinese, solo che quei cingoli dei Tanks non erano le pale dei mulini a vento. La Cina ingessata nel PCC, fondato nel ‘21 come il PCI nostrano, dopo la lunga marcia, la rivoluzione culturale, orgasmo sessantottino, morto papà Mao, scoprì le leggi di mercato trasformandosi, di riforma in riforma, in un Paese tecno-socialista, cioè capitalista ma col partito a fare da gendarme.
Una testa ruzzolò dopo la pacifica rivoluzione degli studenti, fu quella del Segretario Zhao Ziyang ammaliato dalle sirene perestrojka e glasnost’ del riformista Gorbǎcëv. Quella “scelta giusta”, nella notte tra il 4 e 5 giugno del 1989, fu un lavacro di sangue, “uccidete chi va ucciso”, furono minimo 10.000 morti civili secondo fonti desecretate (per il governo cinese sono la miseria di 200!).
L’Esercito di Liberazione popolare aprì le bocche di fuoco sui ribelli, fu un massacro, ordinato da Deng Xiaoping, a capo della commissione militare centrale del PCC. Sappiamo che i regimi comunisti con cingolati e repressione hanno un feeling particolare, da Budapest a Praga tanto per citarne due, ma su quella piazza di Pechino si consumava anche una resa dei conti intestina al partito tra vetero marxisti leninisti nostalgici delle comuni rurali, i propugnatori d’un’economia socialista di mercato, governata dallo Stato, e i riformisti più liberal (meno Stato più impresa come Zhao).
Già il XV congresso del PCC aveva sdoganato l’imprenditoria privata per accendere il motore dell’economia diventando competitivi, però il macchinista del convoglio merci doveva restare sempre lo Stato o meglio il partito, questo fu il risultato a caldo post Tienanmen. L’ideologia dei comunisti puri e duri doveva sacrificarsi all’import-export, perciò le porte della Città Celeste si spalancarono agli imprenditori dell’industria leggera, agli investitori stranieri, alla tecnologia a bassi costi, così l’odiato capitalismo prese a pedalare forte superando in salita i soliti capifila, U.S.A., Europa.
Quando il denaro scorre copioso, il PIL schizza in avanti e la corruzione olia, la ricchezza s’addensa in pochi, fedeli (o furbi) credenti nella religione del partito, guarda caso, lo stesso risultato che avviene in Occidente L’obiettivo giallo, a testuggine, è uno solo, diventare la prima potenza mondiale, Cina uber alles, espandendosi zitti, zitti, senza far rumore esattamente come l’olio su una tavola però senza dazi.
Quando da giovani ribelli urlavamo che capitalismo e comunismo erano, e sono, le facce d’uno stesso Giano, eravamo profeti inascoltati, bastonati con l’accusa di “fascisti” sia dai colletti bianchi che dai guardiani della classe operaia. Aurum est solus dux anche sulla via della seta, “tutto il resto è noia”, libertà, democrazia, rispetto, diritti umani, solo ciance fumose dei liberal-progressisti per lavarsi il culo con le mani sporche.
Ai ragazzi di quella piazza di Pechino dedichiamo, in memoria, un nostro vecchio grido: ”Boia chi molla”.